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Giugno 2016

Considerazioni referendarie:
cosa insegna il referendum sull’uscita del Regno Unito dalla Unione Europea.
Un regalo per i novant’anni della Regina Elisabetta.
di Domenico Giglio

Chi ha votato per l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea ha pensato forse, inconsciamente, anche di rendere un omaggio alla sua Regina, ma, per la eterogenesi dei fini, ha forse innescato la dissoluzione del Regno Unito, come abbiamo visto quando Scozia ed Irlanda del Nord, hanno precisato che loro intendono rimanere giuridicamente nella Europa comunitaria e quindi staccarsi dal resto del Regno che diventerà non più “Unito”, cambiando necessariamente anche la bandiera per la quale avevano combattuto ed erano morti in centinaia di migliaia di soldati e marinai, anche scozzesi ed irlandesi.
Qualcuno ha poi notato che nell’arco di 400 anni si sta probabilmente compiendo, con l’attuale Regina Elisabetta II, un ciclo storico con il ritorno ad un Regno d’Inghilterra, quale era quello su cui regnava la prima Elisabetta ? Se così fosse non potevano fare regalo peggiore per i novant’anni della loro Sovrana!
Similitudini tra referendum.
L’esito del referendum circa la permanenza del Regno Unito nella Unione Europea ha visto una esplosione, da parte di analisti e commentatori, sui giornali italiani, di commenti negativi e disgustati per il risultato, ed insieme ad argomenti seri, specie di carattere economico, vi sono stati interessanti articoli sulla validità di questo voto, per la modesta differenza tra i “sì” ed i “no”, quando per eventi del genere, sarebbe stata necessaria, così hanno scritto, una maggioranza qualificata ed alcuni, tenendo conto che i votanti sono stati poco più del 72% del corpo elettorale, hanno sottolineato che quindi solo il 37% si è espresso a favore della uscita dalla UE. A distanza di 70 anni, questi articolisti , che dai loro nomi escludo abbiano simpatie monarchiche, con queste considerazioni mi hanno dato una autorevole conferma che il referendum istituzionale del 1946, lascia molti dubbi sulla effettiva vittoria repubblicana, il cui vantaggio di circa due milioni di voti, si sarebbe ridotto tenendo conto del milione e cinquecentomila voti annullati e minoritario rispetto al totale degli iscritti nelle liste elettorali, e che un evento di tale genere con le conseguenze che abbiamo visto e che viviamo, si sarebbe dovuto tenere quando a votare dovevano essere tutti i cittadini italiani, di tutte le provincie , comprese le centinaia di migliaia di ex prigionieri , ancora non rientrati in patria.
Anglofobia ed anglomania.
Sempre con questo referendum sono tornati a galla sentimenti per lo più anglofobi, fino a riesumare il termine della perfida “Albione”, dovuto a Vincenzo Monti, certamente poeta famoso, ma non certo esempio di coerenza politica, ma anche sentimenti di amore ed ammirazione per istituzioni, tradizioni, usi e costumi degli “angeli”, non “angli”, come li aveva definiti un antico Pontefice. È possibile che non si possa ragionare e valutare avvenimenti e popoli, con equilibrio e serenità, tirando invece fuori luoghi comuni, se non addirittura barzellette, e questo dopo 71 anni dalla fine della seconda guerra mondiale quando le ferite dovrebbero essere storicizzate e non più eventi sui quali ancora basarsi nei rapporti reciproci tra le nazioni europee. La scena evangelica dell’adultera e la frase di Gesù Cristo, che chi era senza peccato scagliasse la “prima pietra”, ha una validità universale, per cui lasciamo agli storici, quelli veri e non ideologicizzati che scrivono per dimostrare una tesi precostituita, di definire i rapporti avuti dall’Italia con la Gran Bretagna ed altre nazioni europee, dal momento che è l’Europa tutta ad essere oggi sotto attacco.
30 giugno 2016

Sullo sfondo della Brexit
Lo “splendido isolamento”
di Domenico Giglio

Quante volte abbiamo ripetuto la frase del Foscolo, “Italiani vi esorto alla storia”. Ma questa frase è valida per tutti le nazioni che hanno una storia, e nella vecchia Europa gli stati affondano le loro radici in secoli e secoli per cui l’invito era valido anche per la Gran Bretagna, che dell’Europa fa parte, almeno dall’epoca di Giulio Cesare, dovendo affrontare un “referendum” sulla uscita dalla attuale Unione Europea, di cui possiamo essere insoddisfatti, ma che aveva posto fine a quelle guerre, che in un secolo dal 1914 al 2016, l’avevano fatta retrocedere dal continente guida e “signore” del mondo da tutti i punti di vista dalla politica, alla cultura alla economia, alla finanza, ed a tutti gli altri settori della vita civile, ad un continente ormai minoritario come popolazione, con ricorrenti crisi economiche, in crisi di identità spirituale e di quei valori morali, che lo avevano reso grande. Ed accerchiato da nazioni emergenti, oltre tutto di religione differente, molte delle quali, a loro volta , in crisi, di carattere politico ed istituzionale, anche con guerre civili di inaudita violenza, che hanno reso endemico un fenomeno, quello della emigrazione, che esisteva da tempo, ma che non aveva assunto le dimensioni attuali.
Ebbene in tutto questo scenario brevemente tratteggiato gli elettori britannici, accorsi massicciamente alle urne, hanno deciso, con una modesta maggioranza, che oggi molti contestano, di abbandonare l’Unione europea, senza minimamente pensare alle conseguenze anche interne, vedi Scozia ed Irlanda del Nord, che minacciano secessioni, avendo votato per il mantenimento dell’adesione all’Europa, inseguendo un sogno antistorico di splendido isolamento, sul quale c’è molto da discutere. Senza andare infatti troppo lontano nel tempo, ma partendo da quel 1700, che vide anche ufficialmente l’unione della Scozia, all’Inghilterra, il Regno Unito , ha partecipato a tutte le dispute e le guerre che si svolsero nel continente, toccando il loro culmine nelle guerre napoleoniche, alle quali proprio l’esercito britannico pose fine nella giornata di Waterloo, e solo da allora, fino al 1914, si estraniarono, almeno ufficialmente dalle vicende europee, anche considerando quella strana guerra contro l’impero russo, in Crimea , insieme con la Francia ed il Regno di Sardegna, lungimiranti Cavour e Vittorio Emanuele II, dedicandosi invece ad ingrandire e rafforzare il suo impero, con guerre coloniali, vedi repressioni delle rivolte in India o nel Sudafrica, contro i boeri, impero che così raggiunse una dimensione mondiale, mai vista fino ad allora, ed oggi irripetibile.
Quanto al periodo successivo al 1914 ed alle due guerre mondiali la partecipazione alle stesse del Regno, Unito, anche come protagonista, in entrambi i casi alleato con la Francia, è storia recente che dimostra il suo stretto legame con l’Europa, la prima volta mosso in soccorso del Belgio e la seconda volta per la Polonia, entrambi Stati Europei, purtroppo aggrediti da un altro paese europeo, eventi questi che l’unione dovrebbe avere esorcizzato.
Quali siano state perciò le argomentazioni portate invece a favore dell’uscita, abbiamo letto e constatato la loro povertà in termini ideali e pratici, quando il governo Cameron aveva già ottenuto condizioni invidiabili ed eccezionali, per cui un voto positivo per il mantenimento della adesione, anche e proprio con una forte minoranza favorevole all’uscita, sarebbe risuonato egualmente alto e forte come monito ai burosauri di Bruxelles, ed avrebbe spinto le altre nazioni europee ad una radicale revisione della politica comunitaria, in quei settori in cui è sotto accusa in vari altri paesi europei, ed invece spinto al rafforzamento della politica estera comune, oggi quasi inesistente, e degli organismi militari ed antiterroristici che rispondano alle attuali esigenze, anche se, fortunatamente esiste, ma nessuno lo ha ricordato, pur sempre la NATO, di cui il Regno Unito, è stato ed è parte non secondaria.
27 giugno 2016

Cosa insegna il referendum del Regno Unito
di Salvatore Sfrecola

Ancora una volta la democrazia sulle rive del Tamigi c’insegna qualcosa. Stavolta in tema di referendum, i cui risultati, analizzati come stanno facendo i tecnici della politica e della comunicazione, dimostrano molte cose che hanno un significato politico importante: un contrasto culturale e generazionale, i laureati ed i giovani votano prevalentemente per restare in Europa, come gli abitanti della Scozia e dell’Irlanda del nord, mentre gli anziani e gli abitanti delle piccole città e delle campagne hanno dato voti alla Brexit. Si dice che siano i nostalgici dell’Impero.
Il referendum, tuttavia, insegna altre cose alla democrazia. In primo luogo che il quesito referendario deve essere chiaro e facilmente percepibile dall’elettorato anche nelle sue conseguenze immediate ed in prospettiva. Altrimenti la chiamata referendaria è una truffa perché il popolo vota come indica chi propone il messaggio più accattivante indipendentemente dalla realtà delle cose. In sostanza se il messaggio non dà conto della realtà della scelta che propone il SI il NO vengono sottoscritti senza consapevolezza della scelta. E questo non è democrazia.
Si spiega, dunque, perché la Costituzione vigente, dopo aver previsto al primo comma dell’art. 75 la possibilità che sia indetto un referendum popolare “per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”, al comma successivo lo esclude “per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Le ragioni dell’esclusione delle leggi tributarie è evidente, sarebbero abrogate tutte. Le leggi di bilancio, “alle quali sono necessariamente connesse quelle in materia finanziaria” (Mortati), costituiscono il documento fondamentale sul quale si basa il funzionamento dello Stato. Inoltre il bilancio è “legge formale”, non ha carattere innovativo, limitandosi a recepire le prescrizioni contenute nelle leggi di spesa. Quanto all’amnistia e all’indulto si tratta di scelte politiche che attengono all’esercizio del potere punitivo dello Stato, essenziale al mantenimento dell’ordine pubblico. Ugualmente si comprende l’esclusione delle leggi che autorizzano la ratifica di trattati internazionali, documenti complessi, di elevato contenuto politico, che comportano scelte spesso oggetto di lunghe e complesse trattative che incidono su situazioni di carattere economico e commerciale e di sicurezza internazionale. Abrogare un testo complesso come un trattato internazionale, intorno al quale si articola tutto il sistema dei rapporti con gli altri stati è materia che appare incompatibile con una risposta secca, come prevista in un quesito referendario. Inoltre un trattato disciplina situazioni diverse. Un pacchetto che può essere in parte accettato, in parte respinto. S’intende che non è materia da rimettere alle decisioni del popolo che, come insegna la Confederazione Svizzera dove i referendum sono molto frequenti, deve essere chiamato ad una scelta non equivoca.
Concludendo, neppure in un referendum consultivo, come quello del 23 giugno nel Regno Unito, appare utile sperimentare il ricorso al voto popolare che nella stragrande maggioranza non è sorretto da una conoscenza compiuta del trattato e delle sue conseguenze. Il Regno Unito ne è la dimostrazione plastica. Non ha aderito alla moneta unica ed ha, proprio di recente, ottenuto da Bruxelles delle significative deroghe che hanno soddisfatto la sua antica volontà di stare a margine dell’Unione. In sostanza aveva ottenuto di godere dei vantaggi e di minimizzare i condizionamenti dovuti al mercato unico.
Questo non vuol dire che non sia autentico il disagio dei sudditi di Sua Maestà in un’Europa che stenta a realizzare quell’unione che le darebbe un ruolo determinante nelle politiche economiche e della sicurezza a fronte della globalizzazione dei mercati e delle crisi che insanguinano il mondo. L’Europa è una grande realtà, storica, culturale, economica, ma ha paura di esserlo e lascia ai governi nazionali, che si riuniscono nel Consiglio dei ministri, decisioni timide e più spesso contraddittorie per cui segna il passo.
È probabile che la brexit, che ritengo non si realizzerà, sia l’occasione per rivedere trattati e politiche, un campanello d’allarme che non sarebbe stato necessario se la classe dirigente europea fosse all’altezza del ruolo e di quanti la vollero a cominciare dal dopoguerra, da De Gasperi a Schuman, da Monnet ad Adenauer. I quali ebbero un sogno che non vogliamo sia interrotto.
26 giugno 2016

CIRCOLO DELLE VITTORIE
Presidente: Antonio Fugazzotto
V. Presidente: Domenico Fittipaldi
Tesoriera: Tiziana Ansoldi
Segretaria: Maria Bosco
Cons. Paolo Falsi
Cons. Luigi Rizzo
Cons. Licia Ugo
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Giovedì 23 giugno 2016 dalle ore 18:00
RIFORME COSTITUZIONALI:
VERSO IL REFERENDUM

INTERVENGONO
L’on. Giuseppe Gargani
Ex Sottosegretario alla Giustizia
Presidente del “Comitato Popolare per il NO
al referendum sulle Modifiche della Costituzione”

Il dott. Salvatore Sfrecola
Presidente di Sezione della Corte dei conti

Il Prof. Filippo Vari
Docente di Diritto costituzionale
Università Europea di Roma

Il Sen. Maurizio Gasparri
Vicepresidente del Senato

Introduce e modera
Antonio Fugazzotto
Parrocchia di Santa Lucia (Sala Teatro)+Via di Santa Lucia 5
Roma pressi di Piazzale Clodio

Prove tecniche di democrazia
Quando l’elettore vota “contro”
di Salvatore Sfrecola

Detto tra noi, a parte i risultati di Roma e di Napoli, ampiamente previsti, nessuno avrebbe scommesso sul crollo della sinistra a Torino, storica roccaforte del PCI, PDS, PD, dove Piero Fassino, un gentiluomo moderato che ha rivestito importanti incarichi di partito e di governo, è stato scalzato dalla poltrona di primo cittadino da una giovane del Movimento Cinque Stelle, Chiara Appendino, certamente con tratti professionali significativi, la laurea alla Bocconi ed una attività nel settore imprenditoriale, ma senza esperienza politica. Il voto, tra l’altro, ma è accaduto anche a Roma ha premiato un Movimento che ha dimostrato di saper cogliere il malessere dei ceti più modesti, come dimostra il successo conquistato nelle periferie, nelle aree più disagiate, dove la povertà condiziona la vita della gente in un contesto di  trasporti inefficienti, strade dissestate, mancanza di pulizia, l’assenza di ogni decoro urbano.
Il partito democratico prende voti soltanto nei quartieri centrali nella Roma bene e nella Torino dei salotti e crolla laddove il disagio è più grande a dimostrazione dello scollamento del partito della sinistra rispetto alle classi popolari, interpretate meglio dal Movimento Cinque Stelle e, a Roma, da Fratelli d’Italia.
Un fatto nuovo sui quali si arrabattano, in difficoltà per non aver individuato questa tendenza, politologi e giornalisti adusi ad interpretare i fatti della politica avendo l’occhio al partito di riferimento, alla proprietà del giornale sul quale scrivono, senza avere la capacità di esprimere in autonomia valutazioni approfondite. È la sconfitta dei partiti che non sono capaci di interpretare le esigenze della gente, e la sconfitta degli osservatori politici sempre sul generico. È la sconfitta di Matteo Renzi che ha ritenuto di caratterizzare la sua presenza politica con slogan e parole d’ordine che sembrano tratte da un fumetto, come ha detto un commentatore durante la lunga maratona televisiva di Enrico Mentana su  La7.
È la sconfitta di un partito lontano dalla gente governato da Roma con sms e Twitter, mentre la classe politica locale dimostra i suoi limiti per essere legata a interessi dei potentati dell’industria e del commercio. È la sconfitta di chi non ha saputo affrontare i temi della crisi economica avviando un programma di investimenti pubblici capaci di coinvolgere iniziative private che ben impegnerebbero risorse significative a fronte di progetti identificati come validi e utili al Paese. Un Paese che si allaga al primo acquazzone, che non è capace di gestire i rifiuti tossici seguendo la filiera degli adempimenti prescritti dalla produzione allo smaltimento. Un Paese che ha un sistema idraulico forestale assolutamente precario, un sistema di infrastrutture viarie inadeguate all’esigenza dello sviluppo dei commerci e del turismo, una ricchezza sempre evocata a parole ma mai perseguita nella realtà, quella che deriva dall’immenso patrimonio storico-artistico in un contesto ambientale meraviglioso. Un Paese dove gli acquedotti perdono la metà della loro portata, dove le infrastrutture elettroniche non sono all’altezza di una economia che vuole crescere.
Chiacchiere, solo chiacchiere da parte del Governo. Milioni e miliardi distribuiti a destra manca, più esattamente promessi, spesso richiamando stanziamenti già disposti, altre volte inventandone di nuovi, che rimangono sulla carta. Come rimane fumosa la riforma della pubblica amministrazione, che dovrebbe essere in realtà la prima preoccupazione di un governo perché solo con gli uomini della pubblica amministrazione, con le leggi che essi applicano e con le procedure delle quali si servono, è possibile perseguire gli obiettivi contenuti nel programma di governo.
Chi non ricorda il premier nel suo primo discorso al Senato indicare con cadenza mensile le riforme da fare? Della pubblica amministrazione, del fisco, della scuola, della giustizia, del lavoro, dell’economia, una elencazione che costretta nello spazio di un mese con una cadenza incalzante dava dimostrazione di una non conoscenza dei problemi, di una improvvisazione pericolosa, come la rottamazione di magistrati e dirigenti, oltre che di politici della vecchia scuola che ha rallentato anche laddove si poteva più celermente procedere. Ricorda un po’ quel che accadde all’inizio della rivoluzione spagnola quando i marinari di alcune navi, baldanzosi per l’insediamento della Repubblica, gettarono a mare gli ufficiali, sì che le navi senza comando rimasero ferme nei porti non essendoci nessuno che fosse in condizioni di governarle. A dimostrazione che le professionalità non si inventano, che se necessario, come era necessario, cambiare nella classe dirigente burocratica e di supporto degli organi di governo, fare tabula rasa significa privarsi di ogni supporto quando sarebbe stato necessario selezionare tra i grand commis quelli che avrebbero potuto collaborare col nuovo governo al servizio delle istituzioni e non compromessi con precedenti esperienze ritenute non meritevoli di essere mantenute.
Sono alcuni degli errori di Matteo Renzi, un politico ambizioso, certo con qualche merito, ma con poca esperienza e zero attenzione alle proposte che non venissero dalla sua fantasia e da quella dei suoi più stretti collaboratori fiorentini. Se il giovane di Rignano sull’Arno avesse arricchito la sua preparazione oltre che con le regole dei boyscout e le furbizie che aiutano nella partecipazione ai quiz televisivi con qualche buona lettura di storia politica e delle istituzioni, probabilmente si sarebbe potuto circondare di persone utili alla sua causa ed a quella dell’Italia, perché nessun uomo di Stato, meritevole di questa definizione, distingue i propri interessi politici e personali da quelli della nazione nelle sue varie articolazioni.
In questo contesto la risposta dell’elettorato è stata sintomatica. Fassino, intervistato subito dopo la debacle ha detto “la destra si è schierata con l’Appendino”. Accade così ovunque in democrazia. Negli scontri a due se l’elettore non ha il suo candidato vota per chi è meno lontano da lui od è portatori di valori che comunque condivide. Non si tiene lontano dal seggio. È evidente che la destra che ha votato senza accordi per i candidati del Movimento Cinque Stelle assume un credito ma soprattutto si prepara a riprendere l’iniziativa avendo maturato un’esperienza importante. Rimanere fuori, orgogliosi di uno splendido isolamento è incapacità politica, assoluta.
20 giugno 2016

A proposito del finanziamento governativo
al progetto “Città della salute” a Torino
Lo stile di un ministro,
il degrado della democrazia
di Salvatore Sfrecola

Non c’è dubbio che il Ministro Boschi abbia ragione: se l’amministrazione comunale di Torino rinuncerà ad un progetto finanziato in parte dal governo, quello che va sotto il nome di “La città della salute”, perderà quei fondi. Se, invece, la dichiarazione del ministro è quella riportata da Il fatto quotidiano, “se vince l’Appendino, Torino perde 250 milioni stanziati dal governo per il Parco della Salute. Di questo mi preoccuperei”, vuol dire che la Boschi è entrata a gamba tesa in una fase delicata delle elezioni a Torino, quella del ballottaggio, per danneggiare il candidato del Movimento5Stelle che avrebbe manifestato l’intenzione di cambiare programma per motivi vari, in particolare evitando il concorso di finanziamenti privati. Un assist a Fassino che, in quei termini, il ministro non si sarebbe dovuta permettere.
Sotto questo profilo il suo intervento a Sky è di una scorrettezza gravissima, inaudita, assolutamente incompatibile con il ruolo di rappresentante del governo della Repubblica. In qualunque paese occidentale non sarebbe tollerabile una simile interferenza e il ministro sarebbe stato invitato a dimettersi immediatamente. In qualunque democrazia occidentale, non in Italia, dove la questione sarà certamente archiviata con la scusa che la giovane, chiamata da Renzi a svolgere funzioni di governo, certamente superiori alle sue capacità professionali e politiche, non ha esperienza. Pertanto rimarrà sicuramente al suo posto, così contribuendo al degrado ulteriore della nostra vita politica.
Cosa ci si poteva aspettare da un ministro che difende ad ogni piè sospinto una riforma costituzionale approvata da una maggioranza, tra l’altro molto limitata, in un Parlamento i cui componenti sono stati eletti sulla base di una legge annullata dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 1 del 2014, ha ritenuto, tra l’altro, che il difetto fosse proprio in quel premio di maggioranza che ha consentito al Governo Renzi di esistere? Un dato non formale, al quale nel dibattito sul referendum sento molti indifferenti, a riprova della scarsa sensibilità istituzionale diffusa in vari strati della popolazione. Senza considerare che le regole della democrazia sono fondamentali e la loro violazione, specie se reiterata, mina alla base la convivenza di un popolo. Ed è evidente che se a violare le regole della democrazia è il governo dello Stato vuol dire che il degrado del costume politico ha raggiunto un livello assolutamente intollerabile.
13 giugno 2016

Si pretende che gli italiani possano leggere,
capire gli effetti della riforma
e decidere in piena consapevolezza
Referendum, una autentica truffa
di Salvatore Sfrecola

Nel dibattito sulla riforma costituzionale, in larga misura condizionato dalla narrazione del Presidente del consiglio e segretario del Partito Democratico che attribuisce alle modifiche apportate alla Carta fondamentale effetti positivi sui costi della politica e maggiore efficienza delle istituzioni pubbliche, in particolare con riferimento alla riduzione delle competenze del Senato, si trascurano il più delle volte alcuni aspetti che sono fondamentali in una democrazia. In primo luogo, quello che la riforma costituzionale è stata votata da un Parlamento eletto sulla base di una legge elettorale (il famigerato Porcellum) dichiarata incostituzionale. Non è un fatto formale ma di correttezza istituzionale. Questo Parlamento, preso atto della pronuncia della Corte costituzionale, avrebbe dovuto votare nel più breve tempo possibile una nuova legge elettorale. Ed un minuto dopo il Capo dello Stato avrebbe dovuto sciogliere le Camere. È un fatto di una gravità eccezionale. Non sarebbe accaduto in nessuna democrazia occidentale.
Invece questo Parlamento si è arrogato il compito di modificare in larga misura una parte significativa della legge fondamentale dello Stato approvandola con una maggioranza limitata che è variata nel corso delle molteplici votazioni previste dall’art. 138 Cost. così venendo meno ad un principio fondamentale secondo il quale le costituzioni, nelle quali si riconosce la identità civile di una nazione, debbono contenere norme largamente condivise e, pertanto approvate, sulla base di un’ampia maggioranza. Come è stato nel 1947, quando è stata approvata, con il concorso delle principali forze politiche, la liberale, la cattolica e la socialcomunista, la Costituzione vigente che sarebbe entrata in vigore l’anno successivo.
Anche il richiamo a questa regola, non è un dato formale, ma dimostra la scarsa sensibilità democratica di questa maggioranza che già nel 2001 aveva votato, con quattro voti di maggioranza, una pessima riforma del Titolo Quinto che ha dato, fin dall’inizio, problemi gravissimi allo Stato e alle Regioni. Quella riforma è stata, alla prova dei fatti, deleteria intasando, tra l’altro, la Corte costituzionale con un contenzioso pesantissimo fra Stato e regioni. Se ne sono resi conto gli stessi promotori, gli stessi, ripetesi, che oggi presentano la nuova Costituzione “riformata”.
Ma per chi volesse ritenere formale, e non lo è, il fatto che un Parlamento delegittimato abbia addirittura modificato la legge fondamentale dello Stato, e l’abbia votata con pochi voti di maggioranza, c’è da dire che il referendum si presenta come una vera e propria truffa ai danni degli italiani. Si sente, infatti, ripetere dal Presidente del Consiglio e da altri esponenti della maggioranza, sui giornali e in tutti i dibattiti televisivi, che il referendum è espressione di democrazia partecipata perché gli italiani decideranno avendo letto e valutato il testo della legge. Ora non c’è dubbio che questa affermazione costituisca una gravissima presa in giro, perché il testo è complesso e di non facile interpretazione per i tecnici che si sono espressi, come abbiamo letto anche sui giornali, con modalità diverse, per cui è inconcepibile ritenere che cittadini comuni, in particolare quelli con scarsa cultura non solo giuridica, possano, con piena consapevolezza della scelta, votare SÌ o NO quando ad ottobre saremo chiamati a votare. Se ne è parlato ieri pomeriggio in un interessante seminario di studio promosso dal “Centro Studi Rosario Livatino” all’Università Europea di Roma, presenti Riccardo Chieppa, Presidente emerito della Corte costituzionale, i professori Felice Ancora, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico a Cagliari, e Filippo Vari, orinario di diritto costituzionale all’Università Europea di Roma, moderatore Alfredo Mantovano, Consigliere di Corte d’appello, nel corso del quale sono emerse tutte le problematicità della riforma date anche dalla scarsa precisione di alcune leggi.
Questo della difficoltà di comprensione del testo ai fini del decidere se approvarlo o meno non è un dato formale, è l’essenza stessa della democrazia che in un referendum popolare deve mettere i cittadini in condizione di sapere di cosa si tratta per assumere le conseguenti decisioni. Inoltre, mentre sarebbe stato possibile articolare il quesito referendario in relazione a vari aspetti della riforma, tenuto conto che l’elettore potrebbe essere favorevole ad alcuni e contrario ad altri, si è fatto un pacchetto unico, tipo prendere o lasciare, proprio della mentalità del premier.
Inoltre si è inserito nel dibattito prepotentemente il riferimento alla legge elettorale, l’italicum, che certamente ha effetti sulla funzionalità di alcuni aspetti della riforma costituzionale, ad esempio sulla elezione del Capo dello Stato, dei giudici costituzionali e dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma se questi riferimenti possono guidare la decisione sul voto in realtà la legge elettorale è un provvedimento autonomo che non è in discussione in sede di referendum di ottobre. Una data scelta ad hoc dal Premier che teme la decisione della Corte costituzionale che di lì a poco dovrà pronunciarsi. Infatti molti dei difetti di costituzionalità che hanno motivato la decisione della Consulta a proposito del Porcellum si ritrovano nell’Italicum che è un porcellum al quadrato.
Per chi ha sensibilità democratica e senso delle istituzioni le due considerazioni svolte nel corso di questo breve articolo, la circostanza che l’attuale Parlamento sia stato eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale e tuttavia abbia modificato la Costituzione e l’altra che si pretende di ritenere corretto che una riforma così complessa possa essere presentata agli italiani nell’intesa che essi la leggano e dalla lettura traggano elementi certi per giudicare se votare SÌ o votare NO è una autentica truffa ai danni degli italiani.
11 giugno 2016

La destra ai 5Stelle:
l’ipotesi di un assist sussurrato
di Salvatore Sfrecola

In origine fu Berlusconi, nel 1993, durante la campagna elettorale per il sindaco di Roma a fare un assist a Fini, impegnato nel ballottaggio con Rutelli. “Se votassi a Roma – disse l’allora Cavaliere intervistato nel corso dell’inaugurazione di un supermercato – voterei Fini”. Ugualmente Matteo Salvini, più volte all’indomani del primo turno delle elezioni comunali: “a Roma voterei Raggi, a Torino Appendino”. Netto. Tanto è vero che giornali e televisioni sono tornati ripetutamente sull’argomento e ancora ieri, quando sono uscite le smentite a vari livelli. “Il Movimento 5 Stelle non fa accordi, né palesi né occulti” hanno detto un po’ tutti, da Di Maio a Di Battista, che oggi tracciano la linea del Movimento. Non c’era dubbio che sarebbe stato così. Il Movimento, che si è qualificato come nuovo, diverso e distante dai partiti tradizionali, quelli che prendono i contributi statali e piazzano i loro uomini nelle imprese pubbliche e negli enti di Stato, non può fare accordi con coloro dai quali tiene a distinguersi. Il M5S non chiede e non accetta una promessa di aiuto.
Un simile accordo avrebbe smentito il ruolo del Movimento, come è stato concepito da Grillo e Casaleggio, la sua storia. Tuttavia è evidente che una parte della destra ha guardato fin dall’inizio con interesse e direi anche con simpatia l’entrata in campo di questi giovani “duri e puri”, intenzionati a scalzare i vecchi partiti per rinnovare una classe politica dalla quale gli italiani si sentono sempre più distanti, perché la “casta” ha dato pessima prova di sé, tanto che pochi ritengono possa rinnovarsi dal suo interno. Così la destra liberale, che sempre più cerca di ritrovare le sue radici storiche in quel pensiero liberale che ha dato all’Italia statisti sommi, da Cavour a Giolitti, si è trovata spesso nell’azione parlamentare a votare con i “grillini”. Una coincidenza certamente che, tuttavia, è stata interpretata spesso maliziosamente come una sorta di corteggiamento di Salvini a Grillo, sottolineato dal tono basso delle polemiche che in alcuni casi hanno contraddistinto il dibattito tra partito e movimento.
Non richiesti e né offerti, dunque, i voti potrebbero arrivare ai candidati del Movimento Cinque Stelle a Roma come a Torino attraverso indicazioni generiche ma non equivoche di esponenti della destra i quali, rivolgendosi ai loro elettori, potranno evocare l’esigenza del rinnovamento della politica anche a livello di enti locali, nel segno della legalità e della trasparenza. Considerato che Giachetti non è certamente il nuovo e che nella gestione del Comune la trasparenza è stata molto scarsa se non inesistente è evidente l’assist a Virginia Raggi. Ugualmente si potrebbe dire a Torino dove Piero Fassino se la vede con la giovane Chiara Appendino.
D’altra parte sarebbe assurdo che coloro i quali hanno votato centrodestra al primo turno si astenessero nel secondo. In democrazia si vota a favore o contro e in un ballottaggio non c’è dubbio che chi non ha più il candidato è portato a dare il suo voto all’altro che gli più vicino per esorcizzare la possibilità che vinca l’altro, quello più distante.
È una regola antica, quando la scelta è tra due. Invece si sentono indicazioni di non voto, segno di scarsa sensibilità politica, una indicazione a dispetto che nasconde l’incapacità di guardare lontano, di immaginare una strategia di più lungo periodo. Anche perché è evidente che chi avrà aiutato il candidato che risulterà vincitore si troverà nella condizione di attuare una sinergia nell’assemblea comunale con la maggioranza che regge il sindaco.
10 giugno 2016

Maurizio De Giorgi,
Il giudizio di ottemperanza
(Key editore, 2016)
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

È stato recentemente pubblicato il succinto lavoro – pur se non manca di spunti interessanti – di Maurizio De Giorgi, Avvocato, dedicato al giudizio di ottemperanza, istituto particolarmente arduo cui il codice del processo amministrativo avrebbe potuto e dovuto riservare una più meditata attenzione.
L’autore, nella soggetta materia, dà prova di sapersi destreggiare tra le norme del codice e le più accreditate pronunce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, giustamente incurante di taluni sconcertanti interventi giurisprudenziali (tra questi, quello concernente il termine per la proposizione dell’appello avverso la decisione di primo grado, stranamente ritenuto dimidiato nonostante la inequivoca disposizione dell’art. 114, comma 9, contenuto nel libro IV, titolo I, del c.p.a., il quale prescrive che i termini per la proposizione dell’impugnazione sono quelli previsti nel libro III).
L’Avv. De Giorgi, che dimostra di avere familiarità con le aule della giustizia amministrativa, ha trattato la materia dell’ottemperanza in quattro capitoli e l’aggiunta di un formulario, con linguaggio chiaro e scorrevole.
Il primo capitolo riguarda il giudizio di ottemperanza alla luce del nuovo codice; il secondo i titoli esecutivi; il terzo il giudice dell’ottemperanza ed il quarto il procedimento.
Il dichiarato taglio pratico – operativo dell’opera e il formulario conclusivo rispondono al meglio alle esigenze specie dei più giovani che intendano cimentarsi con il processo amministrativo.

Verso il ballottaggio
Cambia vento? A Roma e non solo
di Salvatore Sfrecola

All’indomani del primo turno delle elezioni comunali chi, nel Partito Democratico, nei ballottaggi rincorre i candidati del Movimento Cinque Stelle, come a Roma, Giachetti, o è inseguito, come a Torino, Fassino, denuncia negli avversari populismo, protesta per la protesta e genericità dei programmi. Giachetti ha ripetutamente sfidato Virginia Raggi, attestatasi al 35% dei voti, a confrontarsi con lui, con i programmi sui percorsi della metropolitana e su questa o quella linea di tram e via discorrendo. Un confronto che, denuncia il candidato del PD, prima non c’è stato, anzi sarebbe stato evitato dalla candidata del M5S.
Quel confronto forse non ci sarà. In primo luogo perché chi è in testa solitamente non accetta confronti con chi lo insegue. Inoltre sfugge a Giachetti che il confronto tra lui e Virginia Raggi non è sui programmi ma sulla sua personale credibilità come candidato e sul partito che lo esprime in relazione alla sua storia a Roma. Insomma Giachetti è, nel bene e nel male, l’erede dell’area politica che ha governato Roma negli ultimi venti anni.
“È cambiato il vento”, ha detto in apertura della sua conferenza stampa la giovane Avvocato Raggi, un vento che ha premiato, al di là delle più rosee aspettative, la novità, l’immagine della novità, forse anche solo la speranza della novità, magari non bene identificata ma che, in ogni caso, si alimenta della speranza dei cittadini romani letteralmente disgustati da anni di sprechi e ruberie che fanno la cifra dell’inefficienza dei servizi comunali e della invivibilità della città più bella del mondo, in una parola della inadeguatezza dei partiti e delle loro classi dirigenti.
Tutte queste cose la Raggi non le dice ma le fa capire, perché ha compreso che l’ipotesi del cambiamento che ha mosso la sua candidatura è stata accolta dai romani in cerca del nuovo per quel sorriso accattivante, per il tono gentile della voce che dà un’idea della fermezza e della determinazione che la sorregge. In tanti hanno condiviso l’aspettativa del nuovo. Poco conta, quindi, che non abbia indicato quanti kilometri di metropolitana vorrà costruire, se e quali linee prolungare e fino a dove. I quiriti le hanno creduto sulla parola, ispirati da quel volto sereno e sorridente che spiegava con estrema semplicità che la novità è fatta di due parole di straordinaria importanza, legalità e trasparenza, senza mai alzare la voce, neppure per sottolineare un qualche aspetto della sua offerta politica, lei abituata a modulare parole e concetti quando, di fronte ai giudici più esigenti cerca di far valere le ragioni del suo assistito. Quel giudice che si chiama cittadino romano, che in politica è certamente ben più esigente di quello in toga, si è fatto convincere immediatamente è l’ha premiata. Troppo e troppo pressante il desiderio di cambiamento, quello che, già nelle elezioni politiche, era stato condiviso da un quarto dell’elettorato.
Giachetti, c’è da esserne certi, insisterà nel richiedere un confronto ritenendo di essere il più abile con la sua consumata esperienza all’interno del Partito Democratico romano, laddove si decide come gestire le risorse del Comune, tra indennità al personale, premi di produttività (quale?), consulenze, appalti di lavori, di servizi e forniture. È lì, nelle pieghe del bilancio, che si sono spesso annidati gli sprechi, magari all’insaputa di sindaci e assessori circondati da clientes ai quali il più delle volte non è possibile dire di no. Non che siano sempre illeciti, ma i romani hanno deciso di cambiare pagina di cogliere quel vento che è la novità di questa fase storica nella quale, come ha scritto Peter Mair, irlandese, uno dei principali protagonisti della scienza contemporanea, i maggiori partiti registrano un calo di iscritti e di partecipazione ed anche coloro che rimangono fedeli militanti sono sfiancati nel loro entusiasmo.
Si è aperta la fase del ballottaggio. Le due settimane che ci dividono dal secondo e definitivo voto saranno anche il tempo della sperimentazione dell’approccio nuovo che la realtà suggerisce ai cittadini ed ai partiti. Questi ultimi, a sentire le parole dei loro dirigenti, non sembra abbiano capito che è finito il partito che organizza non il consenso, sulla base di idee, ma la gestione delle risorse che fanno gola alle lobby grandi e piccole degli affari. Su questo si misura il rapporto con un movimento, come quello di Virginia Raggi che si alimenta di una protesta che per troppo tempo ha covato nell’animo degli uomini i quali hanno visto sperperi e corruzione passare impuniti attraverso gli anni, spesso protetti da norme di favore. Demonizzare la protesta è sbagliato e sciocco. I fenomeni vanno compresi ed è solamente l’arroganza della “casta” a negar loro cittadinanza.
Vedremo come si atteggeranno alcuni partiti che predicano legalità e trasparenza. Daranno qualche indicazione? Offriranno l’aiuto alla candidata Cinque Stelle, anche se lei non la chiederà? Roma diventa così un grande laboratorio di idee, sospinte da quel vento che “è cambiato”, in favore della giovane che non teme le difficoltà che dovrà affrontare se siederà sullo scranno più alto del Campidoglio. Un primo segnale lo ha dato Matteo Salvini con la solita formula: “se votassi a Roma voterei Raggi”.
8 giugno 2016

Non  disertare il voto
Alle urne, alle urne!
di Salvatore Sfrecola

Un mio amico ha scritto su Facebook che non ascolterà più nessuno che intenda lamentarsi di qualcosa che non va nella gestione della città se non gli avrà preventivamente dato assicurazione di aver votato. La Costituzione all’articolo 48, comma 2, definisce l’esercizio del voto “dovere civico”. Non un dovere giuridico, dunque, obbligatorio, cosa che fu esclusa nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, ma un dovere del cittadino come tale e in quanto partecipe di una comunità.
Un dovere che si connette ad un diritto, espressione prima delle società organizzate anche quando non assurgeva a icona del costituzionalismo moderno, che è quello di contribuire alla vita della società concorrendo alla scelta dei propri rappresentanti da individuare sulla base di un indirizzo politico enunciato nel corso della campagna elettorale, con riferimento a linee politiche ideali ed a programmi di azione amministrativa e di gestione dei servizi pubblici, come avviene essenzialmente nelle elezioni per i sindaci nelle quali si dibatte di mobilità, pulizia, ambiente, servizi amministrativi e alla persona, illuminazione delle strade e sicurezza, tanto per semplificare.
Sono temi che interessano tutti, ricchi e poveri. Nessuno può disinteressarsene. Ovvero, quando se ne disinteressa all’atto del voto, come dice il mio amico, non ha più motivo di lamentarsi se le cose non vanno come sperava.
Un voto può poco? Il disinteresse, l’assenteismo può molto. In negativo perché di fatto genera quel “non governo” del quale poi ci lamentiamo. Ecco perché da sempre richiamo l’attenzione su quel “dovere civico” che molti, troppi, italiani da tempo non esercitano. Anche nelle interviste televisive raccolte per strada si sente dire “non mi interessa”, “non so”, “non m’intendo”, “tanto con cambia niente”. Una disattenzione che è disaffezione per il proprio ruolo di cittadino che tuttavia sarebbe ingiusto addebitare solamente alla gente, ad una certa ignavia o rassegnazione e non si tenesse conto del fatto che la classe politica ha progressivamente perduto credibilità agli occhi della gente, sempre più convinta che la rappresentanza del popolo sia un concetto vuoto, che, in realtà, quello del politico sia un mestiere, anche ben retribuito, che la “casta” sia altro da noi comuni cittadini.
Questo tuttavia non giustifica il non voto. Perché proprio gli errori della politica dovrebbero spingere i cittadini a ribellarsi con l’arma potente di una scelta di alto valore civico perché non è vero che “tanto non cambia niente” perché la storia, anche di questa Italia di individualisti e sfiduciati, dimostra che agli italiani, quando hanno saputo scegliere, venuti risultati, come quando ci ribellammo a chi ci voleva mandare al mare anziché a votare.
D’altra parte chi tace ha sempre torto.
Oggi siamo chiamati a votare per eleggere sindaci e consiglieri comunali. È vero che i programmi presentati dai candidati nelle scorse settimane si somigliano un po’ tutti e non potrebbe che essere così. Le buche nelle strade, la viabilità e la pulizia delle città sono necessariamente temi di tutti. Ma c’è una possibilità di leggere quei programmi al di là degli slogan. Guardando alle persone, alla loro esperienza, a quanto hanno o non hanno fatto nel tempo, insomma alla loro affidabilità.
Si può sbagliare, ovviamente. Come quando si assicura amicizia ad una persona fidando su come si presenta. Ma è più sbagliato non scegliere, rimanere a casa o andare al mare o ai monti. Anche per rispondere a chi ha tentato di sminuire il senso della scelta dei sindaci piazzando la data delle elezioni al termine di un lungo ponte che ha portato molti italiani ad allontanarsi dalla loro città.
Il “rischio delle urne deserte” di cui ha scritto Aldo Cazzullo il 31 maggio sul Corriere della Sera è certamente reale ma voglio allontanarlo, fidando nei miei concittadini, nel loro senso civico nella speranza che quel “dovere” che evoca la Costituzione sia un invito sentito, un po’ come nella esortazione mazziniana, quasi a compensazione del ricorrente, ossessivo richiamo ai diritti. Che non possono essere tenuti lontani dai doveri, che non identificano neppure una contrapposizione, ma sono espressione dell’essere cittadino, che chiede perché, all’occorrenza, sa che deve dare.
Le elezioni amministrative di oggi e del 19, in caso di ballottaggio, ci chiedono di indicare un sindaco “l’unica figura – scrive ancora Cazzullo – che sino a poco fa aveva resistito al declino delle istituzioni e al degrado della rappresentanza”. Lo è ancora, anche se nella maggior parte dei casi non ha risorse adeguate alle esigenze dei servizi che è chiamato a rendere. Ma può liberare i bilanci dal peso degli sprechi e della corruzione. Gli uni spesso funzionali all’altra.
Si vota nelle grandi città, nella capitale dove mai era stato registrato un degrado così mortificante, a Milano, Napoli, Torino, Bologna. Ovunque con le sue specificità. I partiti le temono perché, ad onta dei tentativi di esorcizzarne il significato, sanno che il senso di appartenenza ancora conta e se lo zoccolo duro del Partito Democratico e di Forza Italia può tenere in alcune aree, in altre potrebbe trasformarsi in un esodo biblico in direzione del Movimento 5 Stelle, da un lato, e della Lega e di Fratelli d’Italia dall’altro, con pensionamento anticipato dei vecchi e giovani leader.
Il laboratorio più significativo potrebbe essere Roma dove il centrodestra appare diviso in un ramo con aspirazioni di fruttificare (Fratelli d’Italia e NoiconSalvini) e in uno, Marchini, contaminato da reduci di battaglie perdute, come i valori che continuano stancamente a richiamare. Mentre il PD, tra cattiva gestione e scandali, rischia una clamorosa retrocessione, nonostante l’impegno del segretario del partito Presidente del consiglio.
In testa ai sondaggi, pare, il Movimento 5 Stelle al quale molti guardano come ad una speranza di rinnovamento. La giovane Virginia Raggi riscuote molto interesse. La insegue un’altra giovane, Giorgia Meloni con impegno e determinazione.
Cosa diranno le urne? Oggi e soprattutto il 19 nell’inevitabile ballottaggio?
5 giugno 2016

A margine delle celebrazioni del 2 giugno
Qualche puntino sulle “i” tra politica e storia,
da Sabino Cassese a Corrado Augias
a cura di Salvatore Sfrecola e Domenico Giglio

Capisco e comprendo l’esigenza delle autorità pubbliche di ricordare il 70° del referendum istituzionale e l’enfasi che l’ha accompagnata, ma ritengo che buon gusto e rispetto della verità storica avrebbero imposto parole più sobrie, almeno nelle parole, soprattutto rivolte al futuro del nostro Paese. Invece molti, troppi, hanno scelto la strada della rievocazione delle vicende politiche precedenti il 1946 travisando o ignorando fatti, spesso in modo cialtronesco, denigrando in tono non di rado volgare personaggi della storia italiana probabilmente nell’intento di costruire una narrazione edulcorata che facesse risultare ineluttabile il risultato referendario e pertanto sorretto consapevolmente dalla maggioranza degli italiani. Nonostante i tanti “dubbi” e le molte certezze ed a tacere del clima di intimidazione e di violenza che in alcune aree del Paese impedirono l’espressione del voto a persone notoriamente di fede monarchica. Da pochi giorni è nelle librerie il contributo documentatissimo dello storico Aldo A. Mola (“Il referendum Monarchia-Repubblica del 2-3 giugno 1956 – Come andò davvero?”, BastogiLibri) che segnala brogli, sbagli, pasticci. Ricorda anche che tre milioni di italiani non hanno avuto la possibilità di  votare.
È accaduto altre volte nella storia che il “vincitore” abbia voluto incoronare il proprio successo enfatizzando talune circostanze, minimizzandone altre, spesso denigrando chi aveva perduto, trascurando si considerare che svilire l'”avversario” inevitabilmente riduce anche il senso della vittoria. Nel nostro caso, trattandosi di una consultazione dagli esiti contestati, e che comunque hanno spaccato l’Italia in due, sarebbe stato politicamente più civile guardare soprattutto al dopo con senso di responsabilità nei confronti della società uscita da una guerra devastante e coinvolgere tutti in una prospettiva di superamento della crisi economica e sociale che ne era seguita.
È così che abbiamo garbatamente fatto presente al Capo dello Stato su questo giornale che la sua intervista al Corriere della Sera del 2 recava talune imprecisioni storiche che sarebbe stato bene evitare.
Ugualmente il Professore Sabino Cassese, già giudice costituzionale, l’unico che, nella storia della Consulta, contravvenendo ad uno stile sempre serbato da chi aveva svolto quell’alta funzione, ha consegnato ad un testo (“Dentro la Corte – Diario di un Giudice costituzionale”, Il Mulino, 2015) critiche all’attività dell’alto consesso nel quale ha operato per nove anni, ripresa la libertà di scrivere ha voluto svolgere, ancora sul Corriere del 2 giugno (Le stelle sono ancora molto lontane?), considerazioni varie sulle prospettive che si erano prefissi, a suo dire, coloro che avevano propugnato la scelta repubblicana. Inizia chiedendosi se “sono state soddisfatte le attese e le promesse fatte settant’anni fa, quando gli italiani votarono e scelsero la Repubblica?”, quando, “disfatto lo Stato monarchico e fascista ? il popolo fece sentire la propria voce scegliendo la Repubblica”. Aggiungendo che “per vent’anni non erano state consentite libertà di parola e di associazione ? Per cent’anni, la scuola era rimasta classista, con corsi separati per i figli della borghesia, e per quelli degli operai e contadini, e all’assistenza sanitaria avevano avuto diritto gli iscritti alle «mutue». Nel 1962 fu introdotta una scuola media unica e nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale, aperto egualmente a tutti”.
Mi limito ad alcune considerazioni generali, lasciando all’amico Ing. Domenico Giglio, che da alcuni anni arricchisce questo giornale con proprie considerazioni di carattere storico politico, alcune puntualizzazioni sulla scuola.
Il Professore Cassese, che è persona colta nel diritto pubblico e segnatamente nell’amministrativo, non può confondere lo stato monarchico con quello fascista né assegnare a gloria della Repubblica, come se l’Italia venisse dal nulla, talune riforme di carattere economico e sociale, come la riforma sanitaria, che tutti oggi sono convinti sia stato un errore attribuire alla competenza delle regioni con tutto il seguito di disfunzioni, sprechi e corruzione che giornalmente ci segnalano i mezzi d’informazione. Perché gli è ben noto che l’Italia, nel decennio giolittiano, aveva già sperimentato importanti riforme sociali che l’avevano collocata all’avanguardia tra i paesi continentali.
Ciò mentre i “forti divari” che “L’Italia unificata aveva accettato ? al suo interno” vanno contestualizzati, come ogni storico degno di questo nome sa che va fatto per non apparire fazioso (uomo di fazione). Mentre al giurista, com’è il Professore Cassese, non può sfuggire re melius perpensa, come scrivono coloro che hanno letto le Pandette, che è certamente azzardato affermare che “Internet è divenuto un formidabile strumento per assicurare la trasparenza della gestione pubblica”. Magari usando un condizionale (potrebbe diventare) avrebbe preso meglio le misure in una materia nella quale l’Italia è fortemente deficitaria, tanto da collocarsi molto indietro nella graduatoria, redatta da Transparency International, dei paesi dove la corruzione percepita è più alta. E meno sentita l’etica pubblica.
Così denuncia disfunzioni politiche ed amministrative, la “lentissima attuazione” della Costituzione, quanto alla Corte costituzionale che cominciò la sua attività solo nel 1956, alla elezione dei consigli regionali avvenuta nel 1970. E, poi, “le degenerazioni del parlamentarismo”. Ma se abbiamo avuto 63 governi – l’argomento di Renzi a sostegno dell’Italicum e “il Parlamento fa troppe leggi e rinuncia ad esercitare la sua funzione di controllo del governo”, questo non è forse responsabilità dei partiti e dei loro gruppi parlamentari? E non si chiede, lui che apertamente propende per il SI, se, con una legge elettorale che assegna al partito di maggioranza, che è comunque una minoranza nel Paese, il dominio della Camera, quel controllo sul governo che evidentemente auspica sarà ancora possibile.

Lascio la parola a Domenico Giglio, in una lettera all’Ambasciatore Sergio Romano, che cura la rubrica le lettere sul Corriere, per poi riprenderla a proposito di quel che ha scritto Corrado Augias.
“Io ed il Prof. Cassese
Egregio dr. Romano, ho letto con interesse l’articolo di fondo, del 2 giugno del prof. Cassese e mi sembra di aver vissuto, qui a Roma, forse diversa dalla terra natale del professore, una vita dissimile da quella descritta nell’articolo, con la scuola divisa per ricchi e poveri, quando ricordo invece figli di portieri che studiavano insieme con i figli dei padroni di casa, e se poi la scuola media unica risale al 1962, cosa era quella scuola media che ho frequentato dal 1942 al 1945? E se i Sindaci erano soggetti al controllo statale e non liberi, vorrei mi fosse spiegato come mai Roma avesse avuto un Sindaco di nome Nathan, massone, e Milano, Caldara, socialista, che operarono liberamente ed ancora oggi sono ricordati e portati ad esempio per le realizzazioni compiute durante il loro mandato ?
In Italia libertà e democrazia non sono nate nel 1945, come affermò Parri al quale ben rispose Benedetto Croce, demolendo questa tesi, ma se furono obnubilate per diciotto anni, dal 1925 al 25 luglio 1943, ormai sappiamo bene di chi furono le vere responsabilità, dai popolari ai socialisti, i primi perché impedirono il ritorno al governo di Giolitti, per poi entrare nel governo Mussolini, e gli altri per il loro massimalismo, ed il rifiuto della strada riformista, auspicata dallo stesso Sovrano.
Distinti saluti
(un semplice e modesto) dr. ing. Domenico Giglio”

E veniamo a Corrado Augias
Su La Repubblica, 1 giugno 2016 (Ciò che vidi il 2 giugno, a pagina 28) risponde ad un anonimo lettore (“lettera firmata”, una formula che spesso nasconde lo stesso autore della risposta che confeziona a proprio uso un argomento che magari nessuno gli ha segnalato) che scrive: “Di una cosa non sono mai stato certo: quanto gli italiani, la maggioranza degli italiani, abbiano imparato ad apprezzare l’idea di essere cittadini di una repubblica che vuol dire la cosa pubblica cioè la cosa di tutti. Alle volte mi chiedo se qualcuno o molti non preferirebbero ancora oggi che in quel 2 giugno di settant’anni fa avesse vinto la monarchia”.
Augias esordisce rassicurando il lettore (o se stesso). Egli, infatti, ritiene che “siano trascurabile minoranza gli italiani che preferirebbero vivere oggi sotto una monarchia per almeno un paio di ragioni, una di buona lega, l’altra un po’ meno. La prima è che gli ultimi eredi Savoia hanno dato una così mediocre prova di sé da far ritenere di gran lunga preferibile il più modesto o molesto degli uomini politici; nessuno di loro è lì per ragioni ereditarie quindi prima o poi torna a casa mentre un cattivo re siede sul trono a vita”. Argomenti già in uso, stantii, che non mette conto commentare.
Ma dove il Nostro raggiunge l’apice della sua arroganza e ignoranza storica è quando così prosegue: “ci vollero la sconfitta e la fuga per far abdicare un re come Vittorio Emanuele III, pessimo fin dall’inizio, sgradevole d’aspetto e di cattivo carattere”. E qui mi fermo perché il resto è un tripudio, neppure troppo convinto, della scelta repubblicana, considerato, come scrive, che “non siamo stati capaci di mettere l’idea al centro della nostra identità nazionale”. Una frase buttata lì come fosse poca cosa non sentire collegata identità e forma di stato.
Ma veniamo alle banalità su Vittorio Emanuele III. Quelle parole confermano la supponenza del giornalista-scrittore che tutti hanno potuto verificare specialmente nelle più recenti apparizioni televisive. Di qualunque cosa discetta e insegna, anche di costituzione, che pure in un recente intervento a DiMartedì confessava di non aver ancora letto.
E veniamo all’accusa della “fuga”, un’ossessione che unisce dall’8 settembre 1943 sinistri e repubblichini, una colossale balla storica. Di recente in un convegno ho sentito dire che, durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre molti re e presidenti di repubbliche erano fuggiti in Inghilterra all’atto dell’occupazione tedesca dei propri stati, Vittorio Emanuele III era “fuggito in Italia”, cioè aveva portato la Corona nell’unica parte del territorio nazionale libera dai tedeschi e non ancora occupata dagli Alleati anglo americani. Un atto necessario, responsabile perché solo lui aveva la legittimazione a trattare con gli alleati ed a rappresentare lo Stato. Aveva lasciato Roma, indifendibile sul piano militare, anche per evitare che la più bella città del mondo, là dove il diritto e le istituzioni della politica hanno preso forma diventasse un cumulo di macerie. Montecassino insegna. Inoltre la stessa Santa Sede aveva fatto discretamente pressioni perché il sovrano lasciasse la capitale, ad evitare che divenisse un campo di battaglia per tedeschi e alleati. Scrive Antonio Spinosa (Vittorio Emanuele III – L’astuzia di un Re”, Arnoldo Mondadori, 1990) che “come Pompeo inseguito da Cesare, così lui, tallonato dagli eserciti di Hitler, aveva portato altrove le insegne dello Stato legittimo per sottrarle al nemico”.
E con questo ci auguriamo che coloro che sono in buona fede, anche se repubblicani arrabbiati, abbandonino questo argomento polemico ripetuto pedissequamente senza alcuna ulteriore, seria riflessione.
Re pessimo “fin dall’inizio” scrive Augias. Dovrebbe dirlo a Mario Missiroli (“Monarchia socialista”, un testo che come osserva Francesco Perfetti nell’introduzione alla più recente edizione (Le lettere) che “ha avuto una influenza non secondaria nella discussione sulle caratteristiche del Risorgimento, in particolare nella linea che da Gobetti giunge fino allo Spadolini di ‘Il papato socialista'”). E dovrebbe contestare quanti hanno nel tempo lodato un sovrano che, all’indomani dell’uccisione del padre, il re Umberto I, chiuse la bocca a coloro che auspicavano vendette e repressioni ed avviò la stagione delle riforme sociali con Giovanni Giolitti, riforme a tutti note, un esempio nell’Europa del tempo. Appena insediato disse a Saracco che desiderava esaminare le carte prima di firmarle (non si era mai fatto) aggiungendo che “d’ora in poi il re firmerà soltanto i propri errori, non quelli degli altri”. Il vecchio Presidente del Consiglio si sentì offeso e manifestò l’intento di dimettersi. Il Re lo convinse a rimanere con un discorso “di metodo”.
All’atto di assumere le funzioni di Re scrisse di suo pugno il suo discorso agli italiani. Sapeva maneggiare la penna. Disse, in una delle prime occasioni, che “monarchia e parlamento avrebbero proceduto solidali nella rigorosa applicazione delle leggi”. Consigliò al governo di aprire ai sindacati. E fu Giolitti, lo sviluppo economico e sociale, il pareggio del bilancio, l’introduzione del suffragio universale maschile e l’istituzione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita.
Durante la Prima Guerra Mondiale fu costantemente al fronte e, dopo Caporetto, a Peschiera, nel corso di un incontro con gli stati maggiori degli eserciti alleati, difese con successo l’onore del soldato italiano contrastando le tesi pessimistiche del primo ministro inglese Lloyd George e del Maresciallo francese Ferdinand Foch spiegando loro, in inglese e francese, quale fosse la strategia che avrebbe consentito all’Esercito di riprendere l’iniziativa contro gli austro-tedeschi. Ed è proprio Lloyd George a dirci che era stato colpito “dalla calma e dalla forza” del Re. Aggiungendo che “non tradì alcun segno di timore e di depressione. Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l’impressione che il suo esercito fosse fuggito, e trovava mille scuse e giustificazioni per quella ritirata”. Fu il protagonista di quella giornata, come riferisce Vittorio Emanuele Orlando, Presidente del Consiglio, al quale aveva detto, entrando nella sala dove si svolse la conferenza, una squallida scuola elementare, sede d’un comando di battaglione: “sulla situazione militare desidero esporre e discutere io solo”  E fu sempre a Peschiera che, quando Orlando sottopose alla sua firma il testo di un messaggio da inviare alla Nazione in quel tragico frangente ne modificò l’incipit catastrofico (“Un’immensa sciagura ha straziato il mio cuore di Italiano e di Re”). Preferì scrivere “il nemico, favorito da uno straordinario concorso di circostanze? ” per concludere con un appello: “si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siam pronti a dar tutto per la vittoria e per l’onore dell’Italia”.
Che fosse “sgradevole d’aspetto” non spetta a me giudicare, come del suo carattere. Ma era certamente un capo di stato geloso custode della legge, a volte formalista. Molti avrebbero voluto che mettese in atto un colpo di Stato e non dare l’incarico di formare un governo a Benito Mussolini. Sono gli stessi che respinsero l’ipotesi di un governo Giolitti, liberali, cattolici, socialisti, incapaci di assumersi delle responsabilità. Ma nel governo Mussolini entrarono. Mai diedero al Re quel “fatto costituzionale” che il Sovrano sollecitava. E quando il Re il 25 luglio congedò Mussolini tornarono a parlare di colpo di stato. L’incapacità dei politici che prima e dopo il fascismo hanno lasciato solo il Re costituzionale evoca presunti errori del Re per nascondere la propria irresponsabilità.
Fu un uomo affezionato alla famiglia, un esempio per gli italiani. Studioso di numismatica ha lasciato un’opera che tutti ammirano, il Corpus Nummorum Italicorum, di monete diligentemente descritte di suo pugno. Le ha donate allo Stato all’atto della propria abdicazione con una breve lettera a De Gasperi. A quello Stato che ha avocato a se tutti i suoi beni personali del Re e quelli dei discendenti maschi (XIII disposizione transitoria della Costituzione), un gesto miserevole nei confronti dell’erede di una famiglia che ha unificato l’Italia il cui ultimo Re, Umberto II, dopo il referendum, ha lasciato Roma evitando che l’Italia cadesse in una guerra civile. Nessuno gli è stato grato. Sarebbe stato un gesto signorile, almeno a distanza di 70 anni. Ma Signori si nasce, diceva Totò.
La verità storica non è monarchica o repubblicana, è solamente verità e chi la riconosce dà dimostrazione di intelligenza e di onestà intellettuale.
5 giugno 2016

In margine all’intervista di Marzio Breda del 2 giugno
Presidente Mattarella,
mi consenta qualche precisazione
di Salvatore Sfrecola

Signor Presidente, con la stima che Le porto e la simpatia che in tempi non sospetti mi hanno indotto a dialogare proficuamente con Lei su temi istituzionali, mi consenta qualche piccola chiosa alla Sua intervista a Marzio Breda sul Corriere della Sera del 2 giugno, a proposito di alcune sue affermazioni che io ritengo, sul piano storico, quanto meno estremamente dubbie. In apertura dell’intervista Lei sostiene che “dopo il duro ventennio fascista e la sciagura della guerra, l’Italia entrava a far parte del novero delle nazioni libere e democratiche”. Avrei scritto “tornava a far parte” – poche righe dopo Lei parla di “ritrovata libertà” – perché non è dubbio che il Regno d’Italia, prima dell’avvento del regime fascista, evento prodotto dalla incapacità della classe politica all’indomani della Grande Guerra di affrontare i temi difficili economici e sociali del Paese e avendo lasciato solo il Re che a liberali, cattolici e socialisti aveva invano chiesto di dar vita ad un governo forte, fosse uno stato democratico e liberale. Anzi, certamente tra i più democratici dell’Europa continentale. Tra l’altro il suffragio universale esteso a tutti i cittadini maschi fu voluto da Giolitti e patrocinato dal re Vittorio Emanuele III proprio negli anni del primo cinquantenario dello Stato unitario, mentre il voto alle donne, ricordato ampiamente in questi giorni, è dovuto ad un decreto che reca la firma del re Umberto II, ben prima che fosse definita la data del referendum istituzionale.
Con queste premesse mi sembra azzardata la sua affermazione secondo la quale l’entrare “a far parte a pieno titolo del novero delle nazioni libere e democratiche” sia accaduto “non soltanto perché la forma repubblicana prevalse su quella del monarchica, ma perché, per la prima volta nella storia della nazione, ritrovata alla libertà, la partecipazione al voto di tutti, uomini e donne realizzava una piena democrazia”. E se posso condividere la coda della frase l’affermazione che il rientro tra le nazioni libere e democratiche sia da collegare alla soccombenza della forma monarchica è assolutamente azzardata e indimostrata. Anche perché in Europa gli Stati ad ordinamento monarchico sono sicuramente tra i più democratici, basti fare quale nome: il Regno Unito, il Regno di Danimarca, di Svezia, di Norvegia, questi ultimi anche in testa agli stati virtuosi secondo la classifica annualmente redatta da Transparency International. Mentre la Repubblica italiana nella ventunesima edizione del CPI (2015) si classifica al 61° posto nel mondo e, pur scalando di 8 posizioni il ranking globale rispetto all’anno precedente (69°) rimane ancora in fondo alla classifica europea, seguita solamente dalla Bulgaria e dietro altri Paesi generalmente considerati molto corrotti come Romania e Grecia, entrambi in 58° posizione. Vogliamo affermare che la corruzione è dovuta alla “soccombenza della forma monarchica”? Assurdo. Basti pensare alle denunce di Giolitti se non altro quanto alle spese di guerra ed ai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta (1920-1923).
Lei giustamente dice, l’ho ricordato innanzi, di “ritrovata libertà”. E per la contraddizion che nol consente se l’ha ritrovata vuol dire che l’aveva.
Il suo intervistatore prosegue chiedendole che “è un dato di fatto che la data del 2 giugno non sembra coinvolgere gli italiani con la stessa intensità con cui altri popoli europei, penso alla Francia o all’Inghilterra, vivono le loro feste nazionali”. Ma Lei non ne trae le conseguenze che la storia ci indica. Noi abbiamo nella nostra cultura storica, come punti di riferimento alcune date: il 17 marzo 1861, costituzione del regno d’Italia, lo Stato unitario che gli italiani auspicavano da secoli e che fu dovuto a quello che Domenico Fisichella definisce “il miracolo del Risorgimento”, quando i repubblicani Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini preferirono l’iniziativa politico militare di Casa Savoia al perdurare dell’occupazione straniera di grandi parti della penisola. Lei parla di “unità nazionale raggiunta nel Risorgimento”, dovrebbe essere quella la data della festa nazionale. Poi il 4 novembre 1918, fine della Prima Guerra Mondiale, ritenuta, non a torto, conclusiva del Risorgimento per la annessione di Trento e Trieste, e il 2 giugno 1946 quando si svolse un referendum i cui esiti sono stati contestati ancora di recente per vari motivi, a cominciare dalla esclusione dal voto di alcune aree del paese e di molti italiani ancora prigionieri del nemico. Per non dire del numero dei voti scrutinati: 23 milioni, su 21 milioni di aventi diritto. Un dato singolare. E poi il clima infuocato che in alcune aree del paese ha condizionato perfino la possibilità di votare. In quelle circostanze fu l’equilibrio e il senso dello Stato e della storia di un Re che lasciò l’Italia perché non cadesse in una nuova guerra civile dopo quella che in molte regioni del Paese era stata scatenata all’indomani del 25 aprile 1945. Forse a quel Re doveva essere reso omaggio. Non averlo fatto dimostra che comunque la si voglia considerare il 2 giugno è una festa divisiva. A 70 anni si poteva andare oltre. Gli altri paesi di cui fa cenno il suo intervistatore, quelli che Lei richiama nella risposta, compresa la Spagna, festeggiano date riferite alla fondazione dello Stato, non alla prevalenza di un gruppo su un altro, che è un fatto storico importante e innegabile ma che dovrebbe cedere di fronte all’esigenza di individuare una data non contestata e non contestabile per tutti. Quindi il 17 marzo o il 4 novembre. Tanto è vero, come Lei dice, che “la scelta del 2 giugno? è rimasta meno avvertita di altre”. È un timido riconoscimento dell’assenza di una consapevole identità nazionale, che è sentimento diverso dal nazionalismo cui Lei giustamente rimprovera di essere stato in qualche momento della storia italiana fonte di gravi anomalie sul piano interno ed internazionale. Ma è certo che in quei paesi nei quali si festeggia convintamente la storia nazionale vi è consapevolezza della identità che è necessaria per confrontarsi con gli altri, per avvicinarsi agli altri e per comprenderli.
Dietro l’affermazione della consacrazione di “valori universali affermati nel contrasto alla barbarie del nazifascismo”, valori condivisi da tutti gli uomini liberi, c’è anche un concetto universalistico proprio della religione cattolica che, non va trascurato, ha indotto molti in politica a sottovalutare il ruolo dello Stato nazionale e i valori che esso incarna. Che sono comunque valori universali di libertà nella legalità. Pur essendoci esempi illustri di cattolici impegnati in politica con alto senso dello Stato è indubbio che la concezione universalistica del cattolicesimo abbia indotto molti a non sentire i valori nazionali incarnati nella storia e delle tradizioni del popolo italiano. E dobbiamo ricordare, per rispetto alla storia ed a noi stessi, che l’attaccamento al potere temporale della Chiesa ha impedito nei secoli la formazione dello Stato unitario nazionale e successivamente a causa del non expedit di papa Pio IX ha escluso i cattolici italiani, che pure avevano una presenza significativa sul piano economico e sociale nell’intero territorio nazionale, dalla fase delicata di formazione dello Stato italiano per molte decine di anni.
Ecco, caro Presidente, alcune precisazioni, chiose e considerazione che, da persona intelligente e uomo di diritto, non vorrà respingere.
3 giugno 2016

Le grandi manovre per “repubblicanizzare” l’Italia *
di Cristina Siccardi

Il 1° giugno di 70 anni fa, vigilia del referendum istituzionale, Pio XII si rivolse al Sacro Collegio e, attraverso la radio, agli elettori italiani e francesi (anche in Francia, infatti, si votava, per le elezioni politiche), con queste allarmanti parole, che presagivano il nostro presente: «Domani stesso i cittadini di due grandi nazioni accorreranno in folle compatte alle urne elettorali.
Di che cosa in fondo si tratta? Si tratta di sapere se l’una e l’altra di queste due nazioni, di queste due sorelle latine, di ultramillenaria civiltà cristiana, continueranno ad appoggiarsi sulla salda rocca del cristianesimo, sul riconoscimento di un Dio personale, sulla credenza nella dignità spirituale e nell’eterno destino dell’uomo, o se invece vorranno rimettere le sorti del loro avvenire all’impassibile onnipotenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio. Di questi due casi si avvererà l’uno o l’altro, secondo che dalle urne usciranno vittoriosi i nomi dei campioni ovvero dei distruttori della civiltà cristiana. La risposta è nelle mani degli elettori; essi ne portano l’augusta, ma pur quanto grave responsabilità!».
I distruttori della civiltà cristiana, attraverso il referendum istituzionale, vinsero, ma non il 2 giugno nelle urne, bensì diversi giorni dopo, con gli inganni. La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano.
Per Umberto II fu un vero e proprio colpo di Stato e lasciò volontariamente il Paese il 13 giugno, indirizzando agli italiani un proclama, senza attendere la definizione dei risultati e la pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno.
La monarchia in Italia era una minaccia per i rivoluzionari, così come lo era stata per i giacobini: occorreva tagliare la testa al Re. Se il cattolico Luigi XVI era stato ghigliottinato il 21 gennaio 1793, in Italia con il cattolico Re Umberto si decapitò la Monarchia per volontà dei Comunisti, dei Socialisti, di molti democristiani, fra cui lo stesso Alcide De Gasperi in comune accordo con le aspirazioni repubblicane degli Stati Uniti.
Interessante quanto riporta un documento redatto a Roma il 21 marzo 1946 dall’Ambasciatore argentino in Italia, Carlos Brebbia, e indirizzato al Ministro degli esteri dell’Argentina Juan J. Cooke: «Una repubblica turbolenta con maggioranza socialista e comunista, realizzandosi in Roma, costituirebbe una minaccia costante per la cristianità rappresentata dalla autorità spirituale del Papa. L’appoggio del Vaticano a favore della monarchia è ostensibile ed evidente affinché i cattolici sappiano a favore di chi dovranno votare. I vescovi hanno ordinato l’apertura dei conventi di clausura affinché le monache partecipino alle elezioni e durante l’ultimo Concistoro tutti i cardinali presenti a Roma accolsero l’invito del luogotenente  (il Principe Umberto, che diverrà Re dal 9 maggio al 2 giugno 1946) per presenziare a un ricevimento dato in onore dei nuovi porporati nei salotti del Palazzo del Quirinale, al quale assistette il Corpo Diplomatico e l’alta società romana (?). Alcuni si chiedono se le elezioni si terranno veramente il 2 giugno. Si può rispondere affermativamente a meno che ciò non venga impedito da cause esclusivamente interne (?) È da osservare che anche quando la differenza tra monarchici e repubblicani fosse di poca importanza, il fatto che alcune centinaia di migliaia di italiani non abbiano potuto partecipare alla votazione, potrebbe indurre la parte perdente a reclamare l’invalidità dei risultati».
Parlare di Monarchia è ancora un tabù. Il Comunismo in Italia, come altrove, ha lavorato sulla diffamazione, sull’odio e sull’oblio, metodi efficacissimi per depennare le scomodità e le coscienze, così da poter creare rivoluzionari modelli e arrivare a mettere addirittura sul trono dell’opinione pubblica odierna un Marco Pannella, un’incoronazione che ha trovato la sua legittimazione persino nella Santa Sede.
Affermava Palmiro Togliatti nel 1944 a proposito del futuro della monarchia in Italia: «Accantoniamo questo problema, dichiariamo solennemente tutti uniti che questo problema lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato, allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’Assemblea Costituente, decideremo allora del modo di liberarsi dall’istituto monarchico, se il popolo vuole liberarsi, di proclamare un regime repubblicano come era nelle nostre aspirazioni».
Le loro intenzioni si sono concretizzate e la mentalità italiana si è trasformata, secolarizzandosi a grandi falcate. Se anche gli italiani in maggioranza erano monarchici, che importava? Se anche le votazioni non si potevano svolgere in Alto Adige (sotto amministrazione alleata), in Venezia Giulia (sotto amministrazione alleata e jugoslava), che importava? Se mancavano all’appello gli abitanti delle province di Zara, Istria, Trieste, Gorizia, Bolzano, che importava? Se mancavano alle urne migliaia e migliaia di militari ancora prigionieri all’estero e gli internati civili, che importava? Era il Regime a decidere, secondo le sue aspirazioni, non il popolo.
Agli elettori furono consegnate sia la scheda del referendum per la scelta fra Monarchia e Repubblica, sia quella per l’elezione dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente, cui sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova Carta costituzionale. I votanti furono 24.946.878, pari all’89,08% degli aventi diritto al voto. Questi i risultati ufficiali del referendum: Repubblica 12.718.641 voti, pari al 54,27%; Monarchia 10.718.502 voti, pari al 45,73%; le schede nulle furono 1.509.735 (Fonte: Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni). La Monarchia è un nervo scoperto perché fa paura poiché l’Italia era cattolica e monarchica, per essenza.
Tuttavia La Grande Storia di Rai3 oggi non può più negare, come è accaduto nella trasmissione andata in onda il 27 maggio u.s.: 2 giugno 1946 – 70 anni dalla Repubblica (http://www.lagrandestoria.rai.it/dl/portali/site/page/Page-7f9d45d4-8c78-461e-9787-601bf8c90a52.html). Così, mentre si snocciolano documenti che sottendono incongruenze, manomissioni, sottrazioni di voti, nonché grandi manovre orchestrate da Togliatti, da Alcide De Gasperi, dall’allora Ministro degli Interni Giuseppe Romita, allo stesso tempo Paolo Mieli getta acqua sul fuoco e si affretta a dire che non è il caso di guardare ai complotti? ma i toni antisabaudi oggi si sono chetati, perché la vera Storia può essere imbavagliata, ma non uccisa: ormai ci sono troppe documentazioni e testimonianze che attestano ciò che avvenne 70 anni fa.
I seggi si chiusero alle 14.00 del 3 giugno. Lo spoglio non iniziò con le schede della scelta istituzionale, bensì con quelle dei deputati all’Assemblea Costituente e 35% dei suffragi andò alla Democrazia Cristiana. Le operazioni referendarie furono gestite da tre ministri di sinistra del primo gabinetto De Gasperi: il ministro per la Costituente, il socialista Pietro Nenni, per l’Interno Romita e per la Grazia e Giustizia Togliatti. Presero a dipanarsi ore elettrizzanti. Dopo un accentuato ritardo nell’afflusso dei verbali da parte del Ministero della Giustizia, nelle prime ore del 4 giugno la percentuale repubblicana si collocava fra il 30 e il 40 %.
Dirà Romita: «? le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile! (?) Non era possibile eppure era vero, verissimo, paurosamente vero: la monarchia si presentava in netto vantaggio. Mi accasciai nella poltrona (?) Il telefono squillò più volte (?) La monarchia sta vincendo, mormorai? Che cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti, a tutti gli altri che non volevano l’avventura del referendum?» (M. Caprara, L’ombra di Togliatti sulla nascita della repubblica. Le pressioni del Guardasigilli sulla Corte di Cassazione, in Nuova Storia Contemporanea, 6 (novembre-dicembre 2002), p. 135).
Il Sud era per la maggioranza monarchico, il Nord repubblicano. C’era stata fretta nell’indire il referendum per due ragioni: mancavano moltissimi all’appello, come si è detto, inoltre non si voleva dare l’opportunità a Umberto II, molto amato dal popolo, di dargli tempo per una campagna elettorale a proprio favore. Il Re, infatti, ebbe soltanto 40 giorni appena, ma non si risparmiò e riempì le piazze. Umberto II, che aveva un’immagine pubblica diversa e affabile rispetto a quella del padre, era incapace di finzioni a causa della sua profonda rettitudine morale, della sua signorilità ovunque e comunque, ma anche della sua profonda fede cattolica.
Sarebbe bastato un suo ordine per scatenare una nuova guerra civile, tutta l’Arma dei Carabinieri sarebbe stata al suo fianco, così come le truppe del generale polacco W?adys?aw Anders. Ma rifiutò a priori di versare altro sangue sulla patria. La coscienza innanzi a tutto. Pio XII dimostrò la sua benevolenza: al Re, espropriato dallo Stato italiano di tutti i suoi beni, donò una somma di denaro per i primi duri tempi dell’esilio in Portogallo.
Papa Pacelli, quel 1° giugno, aveva ancora dichiarato: «Da una parte (?) è lo spirito di dominazione, l’assolutismo di Stato che pretende di tenere nelle sue mani tutte le “leve di comando” della macchina politica, sociale, economica, di cui gli uomini, queste creature viventi, fatte ad immagine di Dio e partecipi per adozione della vita stessa di Dio, non sarebbero che ruote inanimate. Da parte sua, invece, la Chiesa si erge serena e calma, ma risoluta e pronta a respingere ogni attacco. Essa, madre buona, tenera e caritatevole, non cerca, no! la lotta; ma appunto, perché madre, è più ferma, indomita, irremovibile, con le sole forze morali del suo amore, che non tutte le forze materiali, quando si tratta di difendere la dignità, l’integrità, la vita, la libertà, l’onore, la salute eterna dei suoi figli. (?) Noi proviamo, anche più sensibilmente che d’ordinario, un immenso dolore nel mirare la società umana più che mai allontanatasi da Cristo, e al tempo stesso una indicibile compassione allo spettacolo delle calamità senza precedenti, con cui essa è afflitta a cagione della sua apostasia. Perciò Ci sentiamo mossi ad elevare di nuovo la Nostra voce per ricordare ai Nostri figli e alle Nostre figlie del mondo cattolico l’ammonimento che il Salvatore divino non ha cessato di inculcare attraverso i secoli nelle sue rivelazioni ad anime privilegiate che si è degnato di scegliere per sue messaggiere: Disarmate la giustizia punitrice del Signore con una crociata di espiazione nel mondo intero; opponete alla schiera di coloro, che bestemmiano il nome di Dio e trasgrediscono la sua legge, una lega mondiale di tutti quelli che Gli rendono l’onore dovuto e offrono alla sua Maestà offesa il tributo di omaggio, di sacrificio e di riparazione, che tanti altri Gli negano».
Nello Statuto Albertino, in vigore fino al 1948, stava scritto all’Art. 1: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Mentre con l’Art. 1 della Costituzione venne stabilito che: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». L’«impassibile onnipotenza di uno Stato materialista», come aveva paventato il Sommo Pontefice, «senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio», era stata ufficialmente sancita.

* Da Corrispondenza Romana n. 1442 del 1 giugno 2016

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