domenica, Marzo 9, 2025
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Casa Savoia, storia personale, politica e militare della più antica dinastia europea in un libro di Antonio Parisi

di Salvatore Sfrecola

“La saga di Casa Savoia, Storie e retroscena di politica, guerre, intrighi e passioni”, di Antonio Parisi, è un volume (Diarkos Editrice, Sant’Arcangelo di Romagna, 2024, pp. 375, € 18,00) che affronta, con dovizia di particolari, sempre documentati, la storia di una dinastia, quella dei Savoia, che affonda le sue radici nella Francia dei franchi e afferma il proprio ruolo politico, culturale e militare a cavallo delle Alpi per insediarsi definitivamente in Italia con il Duca Emanuele Filiberto. Parliamo della dinastia alla quale si deve l’unità d’Italia, prevalsa sulle altre che hanno mostrato nel corso dei secoli e specialmente nell’Ottocento di non avere interesse a rappresentare l’intera penisola, come nel caso dei Borbone o delle altre famiglie imparentate con gli Asburgo d’Austria. Una dinastia di personalità capaci di iniziative politico-diplomatiche attraverso le quali hanno saputo gestire le difficili condizioni politiche di un piccolo Ducato schiacciato fra le potenze che nel corso dei secoli hanno dominato l’Europa, i francesi, gli spagnoli, gli austriaci.

Inizialmente conti, poi duchi, infine re i Savoia si sono spesso dovuti alleare ora con l’uno ora con l’altro dei potenti di turno, sempre allo scopo di garantire l’indipendenza dello stato, di mantenere forte l’identità che, pur essendo sorta all’interno di un contesto di lingua francese, guardava all’Italia con crescente attenzione.

Questo volume di Antonio Parisi, giornalista di lunga esperienza e cultore di storia patria, è, dunque, un omaggio alla dinastia che ha governato l’Italia dal momento della formazione dello Stato nazionale fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale alla quale l’Autore guarda con affetto ma anche con il distacco dell’uomo di cultura che narra fatti senza trascurare mai la verità storica, anche quando nella lunga storia della dinastia ci sono stati momenti che, alla luce di oggi, possono essere ritenuti meritevoli di qualche censura.

Il libro, ricco di notizie, tutte attentamente documentate, prende le mosse da un personaggio che è un po’ mitico nella storia dei Savoia, quell’Umberto Biancamano che 1000 anni fa sulle Alpi occidentali occupò quei territori che furono prima dei burgundi e poi dei re di Borgogna. Una dinastia che nasce con Umberto e si conclude con un altro Umberto, re d’Italia fino al 1946. Il primo e il secondo Umberto, spiega Parisi, sono stati coraggiosi, il primo per l’intelligenza e la lealtà alla corona di Borgogna, che aprì alla dinastia le porte della storia, il secondo, ultimo re d’Italia, che fu costretto a chiudere quelle porte tuttavia mantenendo sempre senso dello Stato, lealtà, intelligenza e rispetto delle regole dinastiche. Coraggioso, come fu attestato da chi lo conobbe nella breve fase della Luogotenenza del Regno e poi nella brevissima di re d’Italia. Umberto era, come la moglie, Maria José, principessa belga, ostile al fascismo tanto che Benito Mussolini trovò il modo, anche nel definire le attribuzioni dei Gran Consiglio del Fascismo di prevedere di intervenire sulla successione al trono, pensando così di intimidire il principe o, al momento opportuno, di bloccarlo.

Umberto dimostrò sprezzo del pericolo nel periodo della cobelligeranza, come nella battaglia di Montelungo quando volò a lungo sulle linee tedesche per dare le dritte necessarie alle artiglierie italiane ed alleate. Ricorda Parisi che Giulio Andreotti, il quale visse i mesi della Luogotenenza e poi del suo breve Regno, espresse un giudizio positivo su Umberto II sostenendo che sarebbe stato un buon re e che avrebbe potuto dare molto al nostro Paese. Un giudizio condiviso, ricorda il libro, da quanti lo conobbero come un gentiluomo che amava l’Italia e gli italiani oltre ogni possibile immaginazione.

La vicenda dei Savoia, scrive Parisi, “per alcuni versi ha qualcosa di letterario. Sembra, a tratti, di potervi scorgere qualche similitudine con la stirpe medievale dei Nibelunghi, che vide protagonisti quei Burgundi che abitarono le terre che poi saranno dei e ancora dopo, in parte, dei Savoia. Nella storia della casata sabauda sono comparsi uomini e donne protagonisti di avvenimenti e fatti sorprendenti che ben avrebbero potuto figurare nella saga germanica, soprattutto nelle vicende che portarono alla fine della dinastia”. Il riferimento è all’assassinio di re Umberto I, alla tragedia della Prima Guerra Mondiale quando il re Vittorio Emanuele III “giganteggiò nei confronti dei nostri statisti e di alcuni generali dell’epoca. Poi però, quello stesso sovrano, si trovò imbrigliato nell’abbraccio pericoloso e nella difficile convivenza con Benito Mussolini e il fascismo”.

Nel momento più drammatico della prima guerra mondiale, dopo la rotta di Caporetto, Re Vittorio è colui che a Peschiera garantirà l’impegno del soldato italiano a riconquistare i territori perduti e con questa iniziativa convinse i capi di Stato maggiore inglese e francese e le autorità politiche dei due Stati che la guerra sarebbe proseguita in condizioni tali da portare alla vittoria. E non c’è dubbio che la partecipazione italiana al primo conflitto mondiale sia stata determinante dell’esito finale perché, con il sacrificio dei nostri soldati, l’esercito austriaco e da ultimo le armate tedesche trasferite sul fronte italiano saranno logorate fino alla grande battaglia decisiva a Vittorio Veneto.

Purtroppo il dopoguerra con la crisi inevitabile dell’industria per il passaggio da un’economia di guerra all’economia ordinaria vide la difficoltà della vecchia classe dirigente di assumere questa pesante eredità e di avviare il Paese alla normalità. I liberali di Giolitti, i cattolici popolari di don Luigi Sturzo, i socialisti di Filippo Turati si dimostreranno incapaci di gestire il ritorno alla vita ordinaria nelle fabbriche e nei campi. Non risponderanno positivamente alle sollecitazioni del Sovrano e questo consentirà l’avvento di Mussolini e della forza politica che aveva espresso e che trovava una larga adesione nel Paese che, stanco delle violenze delle dei rossi ma anche dei fascisti, cercava una soluzione che molti ritennero di poter individuare nell’incarico a Mussolini il quale peraltro, e questo lo si dimentica troppo spesso, con un governo nel quale i fascisti erano pochi, ebbe la l’approvazione della Camera dei deputati liberamente eletta, non influenzata dall’ideologia fascista. Il re, rimasto solo in questa circostanza, lo sarà ancora negli anni a venire quando il fascismo riuscirà a assumere una connotazione totalitaria del potere, assecondato da una classe dirigente incapace di ribellarsi alle limitazioni delle libertà e da vasti strati della popolazione. Così saranno approvate dalla Camera e dal Senato le leggi razziali, nei confronti delle quali il re era notoriamente è apertamente contrario, ma che non avrebbe potuto non promulgare. Se fosse stata vigente la norma della costituzione repubblicana la quale prevede che il Presidente della Repubblica possa inviare la norma approvata dal Parlamento con un messaggio motivato per un suo nuovo esame, la legge sarebbe stata sicuramente votata nuovamente e il re non avrebbe potuto non promulgarla.

Coinvolto in una guerra che non desiderava fare, consapevole, lui militare, delle difficoltà dell’esercito che si era logorato nella guerra d’Africa e nella guerra di Spagna e aveva gli arsenali vuoti e un armamento superato, il Re fu costretto da una improvvida iniziativa di Mussolini ad entrare in guerra contro l’Inghilterra e la Francia, lui che era molto vicino alla famiglia reale inglese, tant’è vero che in un bel libro di Andrea Ungari (La guerra del Re) viene ricordata una lettera del re d’Inghilterra che scrive a re Vittorio sollecitandolo a non entrare in guerra, in una guerra che non avevamo nessun interesse a combattere contro le potenze militari marittime, noi che avevamo l’esigenza di rifornire le colonie d’oltremare. Quindi ben presto sia la Libia che l’Etiopia non poterono ricevere rifornimenti per le truppe dalla madrepatria.

Contrario alla guerra, pronto alla chiusura delle ostilità, che anche Mussolini aveva capito fosse necessario e che non aveva avuto il coraggio a Feltre nell’incontro con Hitler di proporre al dittatore tedesco, il re aveva manovrato con alcuni esponenti del regime fascista più vicini alla monarchia l’ipotesi del ripristino delle dell’autorità statutaria in capo allo stesso Re. Questo avvenne il 25 luglio del 1943 con l’approvazione, da parte del Gran Consiglio del Fascismo dell’ordine del giorno Grandi. Il giorno stesso il re congedò con Mussolini e lo mise al riparo dalle violenze che si erano scatenate in Italia contro il fascismo e le autorità fasciste. Ma Mussolini fu liberato da Hitler e, portato in Germania, gli fu imposto di creare nel Nord occupato dalle armate del Reich una Repubblica filo tedesca, così dando vita ad una sanguinosa guerra civile che è costata alla Monarchia il trono. Infatti, quando il governo italiano stipula l’armistizio con gli anglo americani si scatena la violenza dei tedeschi e della Repubblica Sociale Italiana. Al centro e al Nord la presenza tedesca é massiccia e nella transizione fra la partecipazione alla guerra a fianco dei tedeschi e l’armistizio la situazione notoriamente difficile dell’esercito italiano, disorganizzato e con difficoltà di collegamenti, non consentì una adeguata resistenza nei confronti dei tedeschi, anche se era evidente che i comandanti dei grandi reparti avevano il dovere istituzionale di mantenere il controllo del territorio loro assegnato. Questo in parte non è avvenuto, da molti giustificato dal comportamento del governo quando non dalla incapacità di molte autorità militari. Così è stato facile riversare tutte le responsabilità sul re definendo fuga il doveroso abbandono della capitale, militarmente indifendibile, per mantenere integro il potere dello Stato, una realtà condivisa dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che ha riconosciuto al re il dovere di lasciare Roma per garantire la sopravvivenza dello Stato in una parte del territorio non occupata dai tedeschi e in parte ancora neppure dagli anglo americani.

Naturalmente durante lunga la sua lunga vita il il re delle riforme liberali e sociali di Giolitti e il “re soldato” della grande guerra pensa soprattutto all’Italia, a salvare il salvabile, con personale sacrificio mettendo a repentaglio la vita dell’amata figlia Mafalda, catturata dai tedeschi e lasciata morie nel campo di concentramento di Buchenwald. Sono anche questi episodi sui quali il libro si sofferma con molta attenzione in una lunghissima ricostruzione della saga della famiglia, a cominciare dai dati più significativi che possiamo ricordare pagina dopo pagina. A cominciare dal duca Emanuele Filiberto, uno dei costruttori dello Stato, come ha scritto Domenico Fisichella, il quale trasferisce la capitale da Chambery a Torino, così dando palese dimostrazione dell’opzione italiana della dinastia sabauda.

Poi ci sono tutte le vicende del Risorgimento che stanno molto a cuore agli italiani. Quel periodo storico vede protagonisti le personalità di casa Savoia, a cominciare da quel Carlo Alberto, Principe di Carignano divenuto re, ingiustamente ritenuto incerto nelle decisioni senza tener conto della difficoltà nelle quali si trovava ad operare e senza riconoscergli quel grande merito di aver giocato una carta difficile, difficilissima di sfidare l’Austria nel 1848, a fianco del degli insorti milanesi. Lui re di un piccolo Regno che sfida la più grande potenza militare dell’epoca guidata da quel generale Radetsky, uno dei vincitori di Napoleone a Lipsia, a capo di un esercito potentissimo. L’azione di Carlo Alberto non sarebbe riuscita nell’intento ma la sua decisione, prima di emanare lo Statuto poi di entrare in guerra consegnando alle sue truppe il tricolore italiano merita una speciale menzione. Poi il figlio Vittorio Emanuele II “il re galantuomo” che gestirà il periodo centrale del Risorgimento fino alla conquista di Roma capitale d’Italia, avendo la capacità, pur con tante difficoltà, di affidarsi a uno straordinario statista come il Conte di Cavour, il più grande dell’Europa dell’epoca, come riconoscerà perfino un suo acerrimo nemico il Cancelliere austriaco Clemente Lotario di Metternich il quale dirà che l’Italia disponeva del più grande uomo di stato dell’epoca, aggiungendo “peccato che sia un nostro nemico”.

Il libro è di straordinario interesse per la ricostruzione di passaggi importanti della storia della dinastia del quale possiamo ricordare ai lettori, tanto per stimolare il loro interesse, anche la vicenda del sacra Sindone che attesta della vicinanza di casa Savoia alla Chiesa e alla fede cristiana. Questo sacro lino, del quale si è detto tante volte dell’interesse degli studiosi, fra chi lo ritiene autentico e chi, invece, lo giudica costruzione medievale, mi piace ricordare che Vittorio Emanuele III, quando gli chiedevano di analizzare il telo amava dire “è un fatto di fede” e negava l’autorizzazione alle indagini.

Antonio Parisi che è un attento osservatore delle vicende delle case regnanti e un testimone attento di tutta l’evoluzione della famiglia nel corso dei secoli mette in risalto anche la grande capacità di diplomatica di molti dei duchi di Savoia i quali hanno saputo mantenere l’indipendenza dello Stato spesso muovendosi con grande disinvoltura fra alleanze dovendo confrontare il loro piccolo territorio, con un piccolo esercito e un’economia tutto sommato limitata, con i colossi dell’epoca, come i Regni di Francia, di Spagna o d’Austria. Quindi le critiche che ogni tanto si leggono sui Savoia poco affidabili nella storia delle loro relazioni internazionali vanno considerate alla luce della finalità che questi sovrani dovevano perseguire per mantenere integra l’indipendenza del Ducato e del Regno poi, anche quando le alleanze si rivelavano molto pervasive.

E in questo viaggiare lungo la storia emergono anche le grandi iniziative culturali della dinastia come le dimore, come il Palazzo Reale di Torino, gli immobili di Racconigi, di Venaria Reale o Stupinigi immaginato come villino di caccia e grazie alla straordinaria opera dell’Architetto Filippo Juvarra presto divenuto un luogo raffinato dove ospitare le personalità straniere che i Savoia incontravano sempre nell’ambito di quella politica che consentiva loro di intrattenere relazioni d’amicizia dirette a sviluppare parentele attraverso matrimoni con le più importanti famiglie reali.

E se non si può non ricordare, come si è detto, il duca Emanuele Filiberto quale costruttore dello Stato, va detto anche che è stato un grande generale, vincitore del battaglia di San Quintino. Come Eugenio di Savoia dominatore della battaglia contro l’esercito ottomano sotto le mura di Vienna.

Una dinastia di guerrieri illustri ma anche di uomini di chiesa e coraggiosi uomini di Stato, sicché si può ben dire che tra tutte le case regnanti l’unità d’Italia è indissolubilmente legata al nome di casa Savoia, al protagonismo molto disinvolto ma molto determinato del re Vittorio Emanuele II che riuscirà a convivere con un difficile personaggio come Camillo di Cavour, che troverà una intesa quasi naturale con Giuseppe Garibaldi. I due si riconoscevano reciprocamente, soldati coraggiosi, donnaioli certamente ma follemente innamorati dell’Italia. E il nome di Italia sarà l’ultima parola sulle labbra di Vittorio Emanuele III morto ad Alessandria d’Egitto, ospitato da re Farouk con tutti gli onori di un sovrano, e Italia sarà l’ultima parola sulle labbra di Umberto II fatto morire in esilio senza nessuna pietà da parte di una Repubblica che, nonostante gli anni di un consolidato potere, sente evidentemente la precarietà di un referendum che non aveva dato esatto conto della volontà degli italiani.

Naturalmente nel dire nella saga dei Savoia Parisi, che è stato un giovane esponente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), responsabile del Fronte Monarchico Giovanile, non poteva dimenticare i monarchici dopo la fine della monarchia e quindi non solo racconta dell’attività e del ruolo dell’U.M.I. che li rappresenta dal 1944, ma anche di un dibattito sulla primazia nella Casa di Savoia tra il discendente diretto del re Umberto II, Vittorio Emanuele e suo figlio Emanuele Filiberto, e il casato degli Aosta, più esattamente dei Savoia Aosta, i quali discendono da Amedeo, figlio del re Vittorio Emanuele II. Si tratta di cugini che entrambi rivendicano la successione sulla base di riferimenti normativi alle regole della dinastia, controverse per alcuni, sicure per altri. Per cui abbiamo i fedelissimi di Emanuele Filiberto e i fedelissimi di Amedeo d’Aosta e, alla sua morte, del Principe Aimone, personalità del mondo industriale italiano con responsabilità di primo piano nella gestione della Pirelli ed un ruolo di ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Federazione russa.

Quale sarà il futuro della dinastia è difficile dirlo. Emanuele Filiberto ha due figlie e per assicurare loro la successione ha modificato le regole dinastiche che risalgono alla legge salica, decisione che secondo alcuni giuristi non avrebbe potuto assumere, mentre Aimone è sposato con Olga di Grecia ed ha tre figli Umberto, Amedeo, Isabella. Parisi ricorda anche una profezia di Padre Pio che avrebbe rivelato a Maria José, allora principessa di Piemonte, la fine della monarchia ma preconizzando un ritorno con una personalità che è stata individuata in un giovane della famiglia Aosta.

Buona lettura.

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