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Il difficile pronostico della soluzione della crisi di governo

Il difficile pronostico della soluzione della crisi di governo
La debolezza dell’uomo solo al comando
di Salvatore Sfrecola

Mentre i giornali affidano ai più paludati commentatori di questioni politiche le ipotesi di soluzione della crisi di governo, riflettendo su “Gli accordi che sono possibili” (Sabino Cassese per il Corriere della Sera) tra cui “Una resa senza dimissioni” (Stefano Folli per La Repubblica), immaginando le possibili variabili desumibili dalle prese di posizione dei partiti, forse conviene andare più a fondo, al contesto politico culturale che caratterizza l’Italia ormai da molto tempo. Una analisi che tenta Marco Damilano che, su L’Espresso in edicola, mette “Matteo allo specchio”, intendendo che Salvini e Renzi stiano percorrendo un’esperienza parallela, che ha preso avvio per entrambi nelle giovanili performance nelle televisioni di Silvio Berlusconi, il primo a Doppio Slalom”, il secondo a “La ruota della fortuna”. Il comunista padano e il cattolico “di sinistra”, ispirato dall’insegnamento di Giorgio La Pira, si preparano in quegli anni a rivoluzionare la politica, senza tanti complimenti, entrambi allergici alle regole ed alle prassi che hanno guidato le istituzioni. È l’antipolitica: “sono i leader – scrive Damilano – della Distruzione, più che della costruzione. Coltivano il culto dell’esecuzione, della fretta, dei rapporti di forza”. Lo dimostra l’atteggiamento di sufficienza che entrambi hanno verso le istituzioni, a cominciare dal Parlamento, e nei confronti della Magistratura, della quale hanno in uggia le inchieste, un Corpo che, pur vivendo dopo le indagini della Procura perugina un calo di prestigio agli occhi degli italiani, è comunque un presidio di liberta, che richiede certamente molti e profondi aggiustamenti che non possono essere affrontati tagliando le ferie dei giudici (Renzi) o proponendo la separazione delle carriere (Salvini).

In questa furia demolitrice con obiettivi diversi, la rottamazione e la ruspa, emerge il ruolo dell’“uomo solo al comando”, che sarebbe buona cosa se fosse eliminato l’aggettivo “solo” che indica “persona che è senza compagnia di alcuno, che non ha nessun altro insieme o vicino”, come si legge nel vocabolario Treccani. Per cui la solitaria posizione del leader, che non si sofferma ad ascoltare amici e collaboratori, ne delinea, insieme, la forza e la debolezza, perché la solitudine non consente un’adeguata percezione della realtà politica e sociale nella quale l’azione del partito è destinata ad incidere. Solitudine che necessariamente impedisce al leader di utilizzare a pieno gli strumenti per governare, una volta raggiunto il potere per effetto della capacità, tutta personale, di convogliare consensi come dimostra plasticamente la propaganda elettorale che impegna i partiti in nome del loro leader.

E siccome è certamente più facile conquistare il potere che gestirlo e conservarlo, l’esperienza ci dice di uomini politici giunti al vertice delle istituzioni locali o nazionali i quali, alla prova della gestione del potere, hanno fallito e, conseguentemente, perso i consensi guadagnati con tanto impegno. Renzi e Salvini, per l’appunto. Il primo sommerso da una valanga di voti con i quali gli italiani hanno respinto la sua pasticciata riforma costituzionale, il secondo alle prese con una retromarcia rispetto alla contestazione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio che probabilmente è stata tardiva e lo porterà fuori dal Governo.

Questa premessa per dire che la crisi di questi giorni è conseguenza della gestione solitaria del potere con insufficiente considerazione delle esigenze della gestione amministrativa delle istituzioni, quella che interessa i cittadini i quali, entrando nella cabina elettorale, difficilmente esprimono un voto per le idee politiche del leader ma per le politiche pubbliche concretamente portate avanti nelle materie che lo interessano, la scuola, il fisco, l’economia, ecc.

Ebbene, entrambi i Matteo hanno dimostrato incapacità di gestire la pubblica amministrazione affidata alle loro cure, quella che è fatta di atti e provvedimenti i quali sono diretti, giorno dopo giorno, ad incidere sugli interessi dei cittadini. Questo perché l’uomo solo al comando si circonda di yes men dei quali preme verificare quotidianamente la fedeltà, incurante della loro capacità di gestire il potere, di attuare leggi e regolamenti che interessano i cittadini utenti dei servizi pubblici e, all’occorrenza, di modificarli per renderli funzionali al perseguimento delle finalità indicate nell’indirizzo politico che ha raccolto consensi nelle urne.

In queste condizioni la crisi di governo è espressione della incapacità di governare, molto più che della distanza, in alcuni casi incolmabile, tra Movimento 5 Stelle e Lega. Se si fosse amministrato bene le distanze ideologiche, se vogliamo definire con questa nobile espressione la confusa congerie di aspettative del populismo straccione che ispira i due movimenti, il governo avrebbe potuto soddisfare la media degli interessi degli italiani e andare avanti per la legislatura.

Invece oggi è alle prese con ipotesi più o meno credibili mentre sullo sfondo si profilano impegnative scadenze, dalla legge di bilancio per il 2020 alla misura dell’IVA, mentre nel dibattito non assume alcun rilievo quello che dovrebbe essere l’impegno prioritario di una classe politica preoccupata del lavoro e del benessere degli italiani, un grande piano di investimenti per ammodernare un Paese che non riesce a stare al passo con i partner europei in assenza di infrastrutture viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali che agevolino lo sviluppo di una economia che dovrebbe sfruttare la straordinaria posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo quale porta dell’Europa sul Medio e l’Estremo oriente. Lo aveva scritto Camillo Benso di Cavour più di 170 anni fa. Bastava rileggere un po’quelle pagine! È mancata l’umiltà di studiare.

19 agosto 2019

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