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Per i “grillini” fautori della “democrazia diretta” Il taglio di deputati e senatori deve limitare la democrazia parlamentare. Altro che risparmi!

Per i “grillini” fautori della “democrazia diretta” Il taglio di deputati e senatori deve limitare la democrazia parlamentare. Altro che risparmi!
di Salvatore Sfrecola

Tutti ricorderanno, in occasione del dibattito in Senato sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte a seguito della crisi di governo provocata da Matteo Salvini, come il senatore Stefano Patuanelli, Presidente del gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle, abbia ripetutamente sottolineato, in opposizione alla richiesta della Lega di sciogliere le Camere in conseguenza del mutato orientamento manifestato dall’elettorato nelle più recenti elezioni regionali e comunali, come l’Italia sia una repubblica parlamentare, sicché è solamente nelle Assemblee legislative che si formano le maggioranze di governo. Lo ha detto con enfasi della quale non pochi si sono stupiti, considerato che il Movimento ha fatto sua una teoria apertamente antiparlamentare, quella della “democrazia diretta” patrocinata dal filosofo Jean-Jaques Rousseau ai tempi della rivoluzione francese e morta lì, richiamata anche nella denominazione della funzione ministeriale dell’on. Riccardo Fraccaro, Ministro per i rapporti col Parlamento e la democrazia diretta nel governo Conte 1.

Alla vigilia del voto definitivo sulla riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari è evidente che questo conferma l’ostilità del M5S per il ruolo del Parlamento. E non è un processo alla intenzioni se ricordiamo le parole di Davide Casaleggio, l’ispiratore del Movimento e creatore della piattaforma Rousseau, laddove qualche decina di migliaia di iscritti prendono decisioni per un partito che di voti popolari ne ha avuti alcuni milioni. Il Parlamento, diceva, e lo ha ripetuto parlando all’O.N.U., avrà un ruolo sempre più limitato, fino a divenire superfluo.

Espressione della demagogia più autentica, quella che dalla critica alla casta, per taluni versi certamente condivisibile, desume la necessità di ridurre i costi delle Camere limitando il numero dei parlamentari senza avere previamente proceduto ad una modifica costituzionale riguardanti il ruolo, il funzionamento delle Camere e la legge elettorale. Elementi che delineano il sistema parlamentare, in quanto il numero dei componenti delle Assemblee legislative e la legge elettorale ci dicono come deputati e senatori vengono scelti e conseguentemente come si formano le maggioranze, quelle che sono destinate non solamente a reggere il governo ma anche ad assicurare il funzionamento delle istituzioni di garanzia attraverso la elezione di cinque componenti della Corte costituzionale e degli organi di autogoverno delle magistrature.

La riduzione del numero dei parlamentari, senza una revisione delle funzioni delle Camere e del sistema elettorale, costituisce, dunque, una lesione significativa delle minoranze linguistiche e territoriali (diminuiscono, ad esempio, i delegati di alcune regioni nel collegio che elegge il Presidente della Repubblica) e non affronta conseguentemente il tema della governabilità che si ricollega necessariamente alla consistenza della maggioranza parlamentare che sostiene l’esecutivo.

È noto come in Italia si richieda da tempo un esecutivo più forte, sorretto da uno schieramento compatto, capace di adottare quelle misure di risanamento finanziario e di crescita economica alle quali sono intimamente collegate lo sviluppo dell’occupazione e il benessere delle persone. Deve, pertanto, preoccupare il fatto che, mentre si porta all’attenzione del Parlamento la riduzione di deputati e senatori, si va delineando nel dibattito politico un orientamento in favore di una legge elettorale proporzionale pura, cioè senza una quota uninominale, che avrebbe l’effetto, come insegna la storia delle elezioni in questo Paese, la frammentazione delle forze politiche presenti nelle assemblee legislative. Con la conseguenza di attribuire a modeste minoranze un ruolo di componenti essenziali nella definizione di una maggioranza di governo, assegnando loro una capacità di condizionamento pericolosissimo in democrazia. Chi è più esplicito la qualifica capacità di ricatto.

Il Paese si trascina da anni, da troppi anni, in un dibattito dagli effetti pressoché nulli sui temi del presidenzialismo, del federalismo e della democrazia maggioritaria alla ricerca di soluzioni tecniche che dovrebbero in qualche modo assicurare il raggiungimento di quegli obiettivi politico istituzionali.

Nel deserto di un dibattito politico sterile il M5S che ha saputo cogliere i risultati di una protesta demagogica e basata sull’invidia sociale, quella che aborre gli stipendi elevati e i ruoli emergenti, ha fatto leva su un argomento miserevole quale il risparmio che deriverebbe dal “taglio delle poltrone”, avendo al fondo una diffidenza nei confronti di chi gestisce il potere considerato potenzialmente corrotto o corruttibile.

Va rilevato, come aspetto negativo del dibattito, se così si può dire, quanto ha osservato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di oggi: “di fronte a questo attacco culturale, politico e istituzionale, alla democrazia parlamentare, gli altri, perlopiù, balbettano o assumono posizioni poco credibili. Balbettano quando tentano di normalizzare la riforma dei 5 Stelle, costituzionalmente ineccepibile nelle forme, ma eversiva nelle aspirazioni. Oppure, se non balbettano, fanno proposte che sembrano solo strumentali, sconnesse da una qualsivoglia visione politica”. E fa l’esempio della Lega, che si è convertita al maggioritario dopo aver difeso per tutta la sua esistenza il sistema elettorale proporzionale e dopo aver detto no al referendum del 2016, “al superamento del bicameralismo paritetico, ossia a una riforma che sarebbe stata indispensabile per stabilizzare e rendere coesi governi eletti con il meccanismo maggioritario. Gli antichi fautori del maggioritario (come chi scrive, aggiunge Panebianco) non possono che rallegrarsi per la conversione della Lega. Ma sono consapevoli del fatto che si tratta di una conversione basata solo su calcoli di convenienza momentanea. E i calcoli sulle convenienze cambiano di continuo”.

Come sempre l’analisi dell’illustre politologo è corretta e stimolante. Va tuttavia considerato, non senza amarezza, che tra le forze politiche italiane vi è chi ritiene il Parlamento un ostacolo alla governabilità (ricordiamo Berlusconi che non andava in Parlamento per non perdere tempo!). Eppure oggi Camera e Senato sono composti da “nominati” sulla cui fedeltà alle segreterie dei partiti che li hanno scelti e utilmente collocati in lista non dovrebbero sorgere dubbi. Eppure le ultime legislature hanno registrato un numero rilevante di cambi di casacca, cosa che rivela un minimo di indipendenza, quella che noi vorremmo fosse assicurata a tutti i parlamentari da un sistema maggioritario nel quale l’elettore identifica il candidato verso il quale vanno le sue preferenze e lo vota. In questo modo, come accade nella democrazia più antica del mondo, quella del Regno Unito, il parlamentare si trova a essere componente della Camera dei comuni in virtù dell’apprezzamento dell’elettorato essendo radicato sul territorio e, pertanto, indipendente rispetto alle decisioni delle segreterie dei partiti, almeno su temi eticamente e ideologicamente sensibili. Questa indipendenza finora è stata contrastata dai partiti. Le liste elettorali non si formano a seguito del confronto fra componenti dei partiti ma sono di esclusiva competenza delle direzioni politiche, con svilimento del dibattito politico all’interno dei partiti.

“È stato detto che la democrazia – sono parole di Winston Churchill – è la peggior forma di governo, eccezione fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. E al centro della democrazia sta il Parlamento, rappresentativo degli orientamenti della comunità nazionale. Ridurre il ruolo del Parlamento, come insegna la storia, significa dare l’avvio ad una deriva autoritaria dagli esiti inevitabilmente infausti.

7 ottobre 2019

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