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La storia, infatti, non si offende

La storia, infatti, non si offende.
di Dora Liguori

Tutte le epoche sono state teatro di grandi cambiamenti che hanno comportato violenze e distruzioni; colpa di tutto ciò è forse quella furia che, in presenza di specifici interessi, contrasti e resistenze, esplode nell’animo dei vincitori verso quanti si oppongono, sia pure legittimamente, al loro operato. Spesso s’innesca una furia sanguinaria che, del tutto dimentica della romana e anche cristiana pietà, spinge i più forti ad operare una serie di barbarie nei confronti dei propri simili. Ma, detto questo, un conto sono i fatti riprovevoli e purtroppo ricorrenti nella storia e altro conto diviene la negazione dei medesimi; ossia, quando si parla della cosiddetta conquista del Sud del 1860, in molti, a secondo delle proprie opinioni, perdono un giusto equilibrio e diventano, completamente, sostenitori di una parte o dall’altra dei contendenti, senza zone franche.

A questo eccesso di tendenze, se mi è consentito, appartengono le esternazioni dell’Ing. Giglio che appaiono prive di una più ampia visione della storia, una storia che ha visto sempre i regni o i governi del momento contestati da qualcuno che la intendeva diversamente. E ciò è avvenuto in tutta Europa e in tutti i tempi.

Ad esempio, parlando dei Savoia, essi furono contestati nel 1821 dagli insorti capitanati dal nobile Santorre di Santarosa, il quale, con l’appoggio più o meno esterno, addirittura dell’erede al trono Carlo Alberto, chiedeva al re Vittorio Emanuele I, una riduzione dei suoi poteri e un regime che, meno soffocante, avrebbe dovuto assicurare meno tasse e più diritti al popolo. Il risultato che ne sortì fu che il re abdicò e il suo successore, il fratello Carlo Felice, soffocò subito l’insurrezione, compresi gli ardenti spiriti del nipote Carlo Alberto, e tutto tornò peggio di prima.

Ugualmente, nel ’48, molti Stati, oltre al regno del Sud, fra i quali la Francia e l’Austria, se la videro male; non a caso esiste il detto: “fare un ’48”. Pertanto gli esempi che l’Ing. Giglio porta contro i Borboni non possono definirsi ribellioni specifiche contro quella monarchia ma effetti di un vento rivoluzionario che, erede dell’illuminismo, giustamente spirò in tutta Europa per ottenere una nuova visione circa la libertà delle genti.

Altra cosa, al contrario di quanto sostiene sempre l’Ing. Giglio, fu la rivolta scoppiata, dopo l’invasione del Sud, nel 60, chiamata, dai Savoia, per svilirla, brigantaggio. Essa, infatti, a parte qualche brigante vero e arruolato perché conoscitore dei posti, fu una vera guerra civile, combattuta soprattutto dai contadini che vennero, con l’avvento del nuovo regno d’Italia, privati delle loro terre, da ex soldati borbonici e persino da ex garibaldini. Sull’argomento occorre leggere il più autorevole storico del Risorgimento, Denis Mach Smith che, giovanissimo, si era confrontato anche con Benedetto Croce, nonché leggere altri storici europei, ampiamente scevri da servilismi di regime. Infine occorre leggere tutti fuorché, tranne pochissime eccezioni, gli storici italiani in quanto essi vennero ingaggiati, appositamente, dai Savoia, per occultare i tragici eventi che interessarono il Meridione e che, per la loro spesso inutile crudeltà, non rendevano onore a coloro che scendendo, armi in pugno, s’erano proclamati fratelli.

Insomma la favola bella del Risorgimento (parola coniata a posteriori) fu scritta a tavolino e “ad usum delphini” creando così quella che venne definita la “questione meridionale” dalla quale, il Sud, visti i falsi storici, stenta ancora ad uscirne. Ciò non toglie che, a parte gli interessi politici ed economici inglesi e del regno sabaudo (pesantemente indebitato), la spinta idealistica dei liberali nei confronti del Sud, prima del ’60, ci fu davvero, ma essa fu anche temporanea. Infatti, dopo gli eccidi, le deportazioni e soprattutto la famigerata e incostituzionale legge Pica, gli animi e le opinioni di quei liberali che avevano combattuto in buona fede, compreso Garibaldi, ebbero a profondamente ricredersi. Non a caso i figli di Garibaldi, Menotti e Ricciotti, presero parte nel ’70, trovandosi a Filadelfia in Calabria, ad un movimento insurrezionale tendente all’instaurazione della Repubblica, guidato dal garibaldino, Giuseppe Giampà. Il movimento filo repubblicano, subito soppresso per l’intervento del regio esercito, la dice lunga sul come la pensassero i calabresi nonché Garibaldi e figli.

Venendo, nello specifico al convegno calabrese indetto dai neo-borbonici, esistendo ancora libertà, appunto, di convegni e relativi pensieri, la scelta fatta su Cosenza appare tutt’altro che peregrina bensì appropriata alla luce di un dovuto ricordo sulla resistenza portata avanti dai calabresi (e su questo l’ing. Giglio si è alquanto distratto) e sulla repressione che ne seguì. Fatti inoppugnabili e relative motivazioni che possono essere così sintetizzati.

Prima motivazione: la rivolta dei calabresi, al contrario di quella più incisiva e pericolosa portata avanti da Carmine Crocco (dal 1861 al ’65) nella Lucania e nel salernitano, fu una protesta ancorché frastagliata, violenta e, nel contempo, anche la più irriducibile e lunga (dal 1860 al ’72), con la conseguenza, per i calabresi, di dover subire una repressione fra le più cruente con migliaia di uccisi in battaglia, fucilati sul posto e, quando andava bene, di prigionieri deportati al Nord, tenendo conto che i più, durante il viaggio, fatto in catene e a piedi, morivano prima di arrivare a destinazione. Una moltitudine di gente del meridione, soprattutto calabrese che, il neo governo italiano, non sapendo dove mettere detti prigionieri (in numero di centoduemilatrecentoquaranta, stime degli archivi torinesi) ebbe l’idea, per liberarsi di costoro, di acquistare qualche sperduta isola in Mozambico o in Angola e ivi deportarli. Questi Stati, però, conoscendo, attraverso i giornali stampati all’estero, la tragedia del Sud, si rifiutarono di vendere, per un fine tanto disumano, ai Savoia, i loro territori. Infatti, in coscienza, l’opinione dell’epoca era che le deportazioni, ad esempio nella Guiana francese, fossero una giusta ed estrema punizione riservata ai pluri-assassini e non certo ai prigionieri macchiatisi di opposizione politica. Né a giustificare la bella pensata poteva valere il fatto che questi oppositori meridionali, per la maggior parte, fossero contadini e povera gente. La vita umana e il diritto a ribellarsi non hanno scale di valutazione sociale, soprattutto se, a torto o a ragione, con o senza motivazioni liberali, si viene invasi e umiliati in casa propria.

Infine non è pensabile che le ribellioni compiute negli anni e citate dal Giglio contro i Borbone, fossero da intendersi quale espressione di un diritto divino e quelle contro i Savoia atti meramente ingiustificabili; esse, invece, furono tutte espressioni di malcontento e di ansia di libertà. Purtroppo, occorre dire che è ormai divenuto d’uso comune, esprimere giudizi, ad orecchio, sulle ribellioni, partendo, non dall’oggettività delle imprese, bensì da un’angolazione tutta personale e con la quale le medesime si vanno a giudicare.

Alla fine, una visione simile della storia diviene assoluta mancanza di rispetto per la verità e per la vita umana degli interessati.

Secondo motivazione: dopo l’invasione del Sud, il polo siderurgico calabrese di Mongiana (nato nel 1770, ossia molto prima della tedesca Krupp del 1811) che dava lavoro a 1500 calabresi, venne progressivamente smantellata e poi venduta, anzi svenduta, nel 1864, alla “Società Generale del Credito Mobiliare e Banco Nazionale”. L’operazione, come ovvio, non poteva essere condivisa, in generale dai calabresi e, in particolare, dalle 1500 famiglie di cui sopra, povera gente che venne messa letteralmente in mezzo ad una via (a Mongiano gli operai usufruivano di case e di scuole, tipo le nostre primarie, per i figli, ovviamente maschi, ché le femmine era meglio lasciarle analfabete). Pertanto con la chiusura del polo siderurgico fu innescata una bomba umana esplosiva, non certo definibile brigantaggio ma che diede ampio filo da torcere ai regi eserciti sabaudi.

Terza motivazione (la più miseranda nel suo squallore), nel museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” di Torino, nonostante le innumerevoli proteste, è ancora esposto il cranio del calabrese Giuseppe Villella, non propriamente un brigante (vedi le ultime ricerche in merito) ma un povero pecoraro che protestava per fame e che, dopo alcune piccole ruberie, fu arrestato e deportato a Pavia ove, per stenti, morì nel 1864. Di seguito il cranio, dello sventurato anche in morte, fu consegnato, su richiesta e per motivi di studio, a quel “genio” di Cesare Lombroso, ufficiale medico delle truppe piemontesi, che, per via della scoperta di una “fossetta cerebellare mediana” volle dimostrare, agli italiani del Nord, che “delinquenti ed assassini” si nasce e che quindi, più o meno, i compaesani del Villella, i calabresi, lo fossero. La teoria del Lombroso, su una razza superiore del Nord (precursore delle infamanti tesi razziali di Hitler), fu smentita da tutti gli studiosi del tempo e soprattutto dal fatto che alla morte del Lombroso venne scoperto che la famosa fossetta ce l’aveva anche lui.

Purtroppo, nonostante le civili e umane proteste dei meridionali per una degna sepoltura del povero Villella, il cranio è ancora lì nel museo di Torino, posto alla vista delle tante scolaresche in visita, ragazzi che, in modo indegno e falso, apprendono (e le impressioni delle infanzia sono le più durature) come la bella Calabria sia sinonimo di delinquenza.

Con queste motivazioni, e non sono le uniche, prevedere un convegno a Cosenza appare abbastanza logico anche se, a mio giudizio, occorrerebbe rendere memoria e rispetto a tutte le vittime di una pagina di storia che, forse sfuggita di mano, si è macchiata di atti crudeli e tutt’altro che edificanti. Infatti, alla sofferenza e all’umiliazione che l’impresa unitaria andò a creare nei popoli del Sud, occorre aggiungere le vite dei giovani soldati piemontesi spediti a morire, per gli interessi dei potenti, nel già florido meridione d’Italia. Fosse vissuto un politico intelligente come Cavour, molte atrocità avrebbero potuto essere evitate.

Ultima annotazione, l’accenno che fa il Giglio alla Vandea è quanto mai calzante ma in senso contrario. Infatti, l’insurrezione operata dagli abitanti della Vandea e regioni limitrofe avverso una rivoluzione, fatta soprattutto dai parigini, e i cui princìpi essi contestavano, venne soppressa, in modo atroce, nel sangue, prima dal giacobino Robespierre e poi dal primo console Napoleone, con ministro degli interni Fouché. Va a merito dei francesi se l’anniversario di quello che è possibile definire una specie di genocidio, viene ancora, e solennemente, celebrato in Vandea con la partecipazione ufficiale di esponenti del Governo, da sempre convinti nel rendere onore alle povere vittime della “bella” rivoluzione. Eppure stiamo parlando di francesi contro francesi, ma la scelta del Governo circa la parte dalla quale stare, da sempre, è stata giusta e netta. Ugualmente, per onestà storica, a nessun francese è venuta mai l’idea di camuffare o peggio occultare l’atrocità che vennero commesse in quel periodo rivoluzionario o, come dice il Giglio, di fare un convegno, sempre in Vandea, su Robespierre!

E allora perché i calabresi, o chi per loro, piuttosto che gli sventurati incolpevoli morti di Calabria, dovrebbero celebrare un Cialdini, un La Farina o un Lombroso?

La verità e che non ci potrà mai essere reale unificazione in Italia se si continua ad offendere e a svilire la storia. E per storia s’intende quella che emerge, nonostante le epurazioni fatte, dagli innumerevoli archivi del Sud con documenti basati quasi sempre su rapporti resi dagli eserciti piemontesi e dalle autorità locali, nonché dalle copiosissime testimonianze consultabili negli archivi di Torino.

Per concludere, democrazia significa anche libertà di parola e di idee per tutti, nonché rispetto per la passata sofferenza subita, senza distinzione, da quanti ebbero la sventura di trovarsi a vivere in quella tristissima epoca.

P.S. Non sono calabrese, non sono neo-borbonica e nemmeno invitata al convegno in oggetto, ma, innanzi a determinate mistificazioni ed anche ad una certa protervia, rischio di perdere il, sin qui, posseduto equilibrio e diventare una “pasionaria” anch’io

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